Dai primi interventi sul medium televisivo al mondo digitale

L’intervento da parte degli artisti sui media popolari, come la radio e la televisione, inizia negli anni ’30, periodo in cui questi nuovi mezzi di comunicazione nascono e si diffondono a livello pubblico.

La loro nascita rafforza, da una parte, la coscienza di una concezione diffusiva della cultura, e dall’altra, la generale volontà’ di politicità  che attraversa tutte le avanguardie storiche. Si accentua la volontà  di rottura per l’affermazione di una cultura che intervenga esteticamente e linguisticamente su un vasto strato di persone. L’urgenza di un alto coinvolgimento del pubblico assume, da un lato, la funzione di una espressività’ che nasce dalla base e dall’altro la caratteristica di un’arte per il popolo.

Bertold Brecht, nel 1932, ipotizza una radio gestita dal proletariato, capace di mettere l’ascoltatore in relazione con gli altri e toglierlo dall’isolamento sociale. Quest’ipotesi di gestione popolare dei media esprime la consapevolezza degli intellettuali della valenza ideologica e politica, oltre che creativa, espressa dai nuovi media. Allo stesso tempo dimostra l’urgenza dell’intellettuale di vincolare il suo fare all’estetica dei mezzi tecnologici, per far si che la sua visione politica e creativa corrisponda alle mutate condizioni comunicative. Infine occorre osservare che l’attenzione immediata a questi strumenti sottolinea il riconoscimento implicito della profonda rivoluzione temporale che essi comportano. I nuovi media sono mezzi di comunicazione a tempo reale, nei quali l’emissione coincide con il momento dell’ascolto: si tratta quindi di documenti oggettivi sulla realtà’ in atto.

Il programma brechtiano di un controllo sui media da parte del proletariato non e’ messo in atto, e la gestione dei media e’ lasciata alla borghesia, che trova in Marinetti e Masnata, autori nel 1933 del manifesto “LA RADIA”, i suoi teorici. In questo manifesto i futuristi esprimono il profondo amore per le tecnologie avanzate, ma non si preoccupano di un loro uso alternativo: la radio e la televisione sono soltanto mezzi di estensione dell’individualità  dell’arista ( la radio e’ infatti utilizzata per la creazione delle “parole in libertà”). I futuristi intuiscono il significato operativo e linguistico dei nuovi media, capaci di creare un’arte senza spazio e senza tempo, non più  legata al limite della materialità’.

Tuttavia l’utilizzazione futurista dei nuovi mezzi di comunicazione non produce innovazioni tecniche o linguistiche, nella televisione non esiste addirittura spazio per alcun intervento artistico, e lentamente  lo strumento si trasforma, da mezzo sperimentale, ad entità’ repressiva al servizio del potere. La volontà’ delle avanguardie di stabilire un nuovo dialogo con lo spettatore lascia il campo alla propaganda politica e alla conseguente intensificazione dell’alienazione sociale e individuale.

Questa situazione continua per circa 20 anni; il problema dell’efficacia comunicativa dei media e’ nuovamente proposto, nel 1952, dal gruppo Spaziale, nel loro “Manifesto per la televisione”, in cui si afferma la necessita’ di utilizzare i nuovi mezzi di comunicazione per trasmettere una nuova forma di arte basata su un nuovo concetto di spazio. La televisione diventa perciò un mezzo integrativo per la nuova arte, non più’ legata alla materia e perciò eterna. Questa trasformazione dell’arte in impulsi tecnologici tende inevitabilmente ad evertere le istituzioni artistiche tradizionali: la televisione non produce oggetti o immagini stabili, essa si esprime invece con caratteri alternativi rispetto a quelli del quadro e della scultura; usarla significa quindi operare una rivoluzione del sistema linguistico dell’arte.

Le prime alterazioni del linguaggio televisivo si devono a Nam June Paik, artista coreano che nel 1963 giunge a confondere linguisticamente musica e televisione elettronica, tramite una trasmissione televisiva alterata dall’uso di magneti (deformando l’afflusso dei segnali elettronici, l’immagine perviene distorta : il ricevente effettua un controllo attivo e qualitativo sull’evento trasmesso).

Negli stessi anni Vostell, alla Smolin Gallery di New York propone i suoi Dé-coll/age TV, assembramenti di televisori considerati dal punto di vista oggettuale e manomessi in diversi modi, senza pero’ intervenire sulla gestione linguistica.

Per questo tipo di intervento occorre infatti gestire in proprio la produzione dell’immagine, e l’occasione e’ offerta dalla messa in vendita, nel 1964, di una telecamera portatile e di un videoregistratore ( portapak):nasce cosi’ la possibilità  di fare televisione in prima persona, al di fuori dei canali governativi e collettivi. All’idea della televisione come oggetto si sostituisce la televisione come linguaggio artistico, così ’ “il tubo catodico rimpiazza la tela”. Attraverso questo nuovo linguaggio si possono comporre, come in pittura, rappresentazioni del reale e figure astratte. Utilizzando i nuovi mezzi di espressione si può  descrivere qualcosa che sta accadendo dinanzi alla telecamera o dentro di essa ( e quindi riflettere sul suo linguaggio). Il video  e’ perciò  uno strumento particolare, che permette possibilità  inedite di comunicazione.

Cage e Cunningham, in collaborazione con Paik, nel 1965 realizzano “Variations 5”, in cui sono creati campi magnetici collegati a microfoni e telecamere e capaci di creare suoni e immagini se stimolati dalla presenza di un performer.

Le ricerche di Nam June Paik proseguono sugli elementi costitutivi del linguaggio televisivo, dando vita alla creazione di immagini non-oggettive, nelle quali il soggetto e’ dato dal ritmo, dalla luce e dal colore; la sua ricerca riguarda gli aspetti fenomenologici e psicologici del vedere attraverso il tubo catodico e le possibilità di manipolazione del segnale elettronico puro.

Si tratta di opere in cui suono elettronico e immagini astratte si intrecciano opere realizzate tramite dispositivi sofisticati comesintetizzatori e coloratori in cui gli automatismi delle macchine generano configurazioni visive diverse e giochi cromatici in combinazioni infinite di forme e colori. In questo genere di produzioni il dispositivo tecnologico è al contempo il soggetto e l’oggetto dell’opera: allo spettatore non resta perciò che abbandonarsi alla psichedelia della plasticità delle deformazioni di figure e colori.

 

 Ricerche analoghe sono effettuate sempre negli anni ’60 dagli artisti cinetici ed optical.

Negli stessi anni il video è anche utilizzato dai bodyartisti, che lo riconoscono il mezzo più adatto per parlare di se stessi e del proprio corpo. Nella body art il video diviene uno strumento per esprimere le percezioni dell’individuo e dar voce all’esperienza personale.

Nel frattempo si introduce la distinzione tra sperimentazione linguistica e formale, si studia il modo in cui il medium entra in rapporto col reale, quali mutazioni linguistiche comporta e quale funzione sociale può  assolvere, come modifica le abitudini mentali e i comportamenti, che ruolo svolgono le nozioni immesse.

Howard Wise, nel 1969, organizza una mostra televisiva “TV as a creative medium”, in occasione della quale Paik compone il “reggiseno per scultura vivente”: l’artista affronta in questa opera il problema dell’umanizzazione della tecnologia e del rapporto spaziale tra il mezzo elettronico e l’individuo.

Bruce Naumann, nel 1968, porta invece l’occhio della telecamera su si se’, utilizzandola per registrare la componente fisica del suo movimento e interrogarsi sulla propria definizione corporale, utilizzando il proprio corpo e la telecamera come emittenti informazionali di se’ stessi. Naumann utilizza anche il video per creare opere in cui lo spettatore e’ separato visualmente da se’ tramite un gioco di schermi che crea disorientamento.

Il medium televisivo e’ quindi utilizzabile dagli artisti in diversi modi: come oggetto scultura, come documento di manifestazioni territoriali e gestuali, riassume in se’ tutti i media, e’ un linguaggio complesso ,malleabile linguisticamente, e perciò’ adottato, dopo il ’69,  dagli artisti di tutte le tendenze ( il video tape e’ anche utilizzato dagli artisti della Land Art come documento per le loro opere e strumento creativo. Gli artisti che utilizzano la natura nelle loro opere devono infatti risolvere un duplice problema comunicativo :l’esigenza di una esperienza diretta col lavoro e la necessita’ di documentarne l’esistenza; da una parte si richiede la presenza fisica dello spettatore sul luogo di esecuzione, dall’altra si riconosce ad un mezzo alternativo il potere di informare sul lavoro stesso).

A parte pero’ questi e altri isolati tentativi per portare la TV e il VT all’interno dell’orizzonte artistico, il mondo dell’arte europea rimane legato alle sue abitudini linguistiche, questo anche a causa delle difficoltà’ tecniche ed economiche, di trovare e utilizzare i nuovi strumenti; il centro propulsivo della nuova arte rimane pertanto l’America, dove nel 1968, a Boston, sei artisti ( tra cui Paik), producono “The Medium is the Medium”, e dal 1969 la galleria Wise inizia a vendere video-tapes come oggetti d’arte. (Ciò’ che succede dopo il ’69 riguarda una variazione d’uso del linguaggio televisivo secondo la poetica individuale e l’implicazione politica ).

A partire dagli anni ’70, sia in Europa che in America, accanto alle gallerie e alle stazioni televisive si affiancano i musei e i gruppi politici: il video-tape entra nella comunità come strumento d’arte e di lotta.

Risalgono agli anni ’70 le prime videoinstallazioni ( anche se la prima installazione video che la storia dell’arte ricordi e’ “Video Corridors”  (1968 ) di Bruce Naumann, nella quale lo spettatore entra all’interno di un corridoio e vede la sua immagine di schiena e rimpicciolita man mano che si avvicina alla telecamera,  trovandosi catapultato in una situazione profondamente sconcertante.), all’interno delle quali lo spettatore e’ coinvolto fisicamente, costretto a reagire e a modificare il proprio comportamento; basate su una dislocazione di tecnologie televisive varie nello spazio espositivo, la videoinstallazione mette in gioco come elemento fondamentale dell’opera il luogo fisico in cui essa si svolge. In virtù’ del potere illusionistico dell’immagine televisiva, le coordinate spazio temporali dell’ambiente espositivo subiscono profonde modificazioni: si trasformano cosi’ le regole tradizionali della rappresentazione, sovvertendole dall’interno ( nella videoinstallazione non si assiste a una imitazione del mondo reale ma si entra davvero in quel mondo e lo si vive come proprio). Nam June Paik crea, nel 1974, la videoinstallazione “TV Garden”, all’interno della quale numerosi televisori con lo schermo rivolto verso l’alto diffondono immagini montate in modo da generare un mix disorientante di astratto e concreto. Lo spazio virtuale creato dai monitor funziona soltanto nel momento in cui lo spettatore ne varca la soglia, egli e’ quindi determinante per la riuscita di un’opera che si presenta “in fieri”. L’opera vera e propria consiste perciò  nella situazione che si viene a configurare, via via differente  a seconda delle reazioni dello spettatore, che viene perciò  utilizzato dall’artista come “materiale” del proprio lavoro. L’inserimento del corpo dello spettatore all’interno delle videoinstallazioni , infine, offre la possibilità  di un confronto tra il tempo reale e quello registrato.

Nella videoinstallazione “Present Continuous Past” ( 1974 ) di Dan Graham , invece, lo spettatore sperimenta lo smarrimento di vedersi attraverso lo sguardo dell’altro, tramite un gioco di monitors e specchi che determinano una sorta di sdoppiamento del corpo dello spettatore.

La nuova condizione ontologica dell’opera, determinata  dalla presenza al suo interno di colui al quale essa si rivolge nel doppio ruolo di spettatore ed elemento essenziale per la realizzazione del lavoro, ha introdotto dei mutamenti sulle modalità’ relative alla creazione e contemplazione dell’arte.

Per quanto riguarda l’uso del video come strumento di lotta, negli Stati Uniti e in Canada nascono un po’ dappertutto collettivi video, all’interno dei quali  le apparecchiature e le conoscenze tecniche sono messe in comune per la realizzazione di progetti di ricerca e documentazione. Nel  1971 viene inoltre pubblicato “Guerrilla Television” di Michael Shamberg, il manifesto del video di movimento diventato in pochi mesi il libro rosso della controinformazione politica statunitense, che esprime l’esigenza di una televisione decentralizzata, fatta dalla gente per la gente, apertamente polemica contro la presunta obiettività del giornalismo documentario.

Shamberg fonda inoltre la TVTV ( Top Valute Television ), il cui assunto politico e’ di offrire un’informazione radicalmente differente da quella distribuita dai diversi canali televisivi americani. Il lavoro più’ interessante prodotto da questo gruppo e’ una trasmissione di 60 minuti sulla conventions democratica e repubblicana di Miami Beach,nella quale si offriva una visione reale del caos e delle battaglie politiche sotterranee delle conventions, oltre che un’indagine sull’uso mistificante delle trasmissioni televisive. Attraverso l’uso alternativo del video-tape lo scontro politico si arricchisce di una nuova lotta, quella sull’informazione e sulla documentazione. Le minoranze riconoscono come propria solo l’informazione televisiva prodotta dai suoi appartenenti: il video-tape si impone quindi come lavoro politico e creativo, contro la videologia borghese; alle trasmissioni “astratte” del potere si contrappone la realtà’ dei fatti, per poter leggere e vedere le cose direttamente senza la mediazione del regista ( si insiste infattisul rispetto  del tempo reale dell’evento e  sulla volontà di non interferire con ciò che si vuole documentare).

Da un lato quindi l’esplorazione del linguaggio elettronico in vista di una liberazione estetica dell’individuo, dall’altro l’utilizzo del mezzo come strumento di contro informazione per una trasformazione politica della società . Le differenti direzioni di esplorazione del video all’inizio non sono granchè’ divergenti: chi lavora all’epoca col mezzo e’ comunque uno sperimentatore che sfida il monopolio degli apparati statali televisive  sovverte i canoni relativi alla produzione artistica.

 

LA SITUAZIONE ITALIANA

In Italia il fenomeno video comincia relativamente tardi( primi anni ’70 ) rispetto agli Stati Uniti ( meta’ degli anni ’60), e si sviluppa soprattutto in senso politico e documentario. I video d’artista che circolano in Italia in quegli anni sono per lo più’ documentazioni di eventi, di performance, di mostre: più’ che l’interesse a realizzare col video opere in se’ autonome, concepite appositamente per il  video, prevale l’intento didattico ( ad esempio il video e’ visto come un mezzo in grado di facilitare la lettura di un’opera d’arte

). L’assimilazione del video da parte degli artisti non deriva quindi da una presa di posizione linguistica precisa, sfavorita anche da una generale arretratezza tecnologica e da una rarefatta diffusione commerciale delle apparecchiature, mentre l’ambiente culturale, tradizionalmente passatista, non incentiva la sperimentazione sul nuovo strumento ( il video, all’inizio, viene sottovalutato e non ritenuto un mezzo linguistico ricco di potenzialità’ espressive ). Tuttavia a partire dal ’71, dopo l’esordio del video alla mostra “Gennaio ‘70” al museo civico di Bologna, diverse gallerie italiane si aprono alla nuova tecnologia, inaugurando delle mostre in cui il mezzo e’ presente soprattutto per documentare gli eventi in atto ( anche se manca la reale volontà di investire concretamente sul nuovo mezzo ). Tra il ’72 e il ’75, perciò, il video conquista le gallerie e gli artisti italiani, ma oggi resta ben poca traccia di quella che sui documenti appare come una fervida attività.. Gli stessi artisti spesso citati per i video realiizzati all’epoca, in seguito hanno continuato a operare con altri mezzi ( in quegli anni il video in Italia si e’ perciò’ presentato più’ come una moda d’importazione e un terreno di esplorazione che un vero e proprio strumento linguistico. La tecnologia del dispositivo elettronico inizialmente non stimola la creatività’ degli artisti italiani, cosi’ il linguaggio video non viene esplorato nelle sue peculiarità’.

In questo contesto, gli unici a rivolgersi al video e a comprenderne appieno le potenzialità linguistiche come mezzo di comunicazione antagonista sono Anna Lajolo, Guido Lombardi e Alfredo Leonardi, tre cineasti che nel 1971 fondano il collettivo “Videobase”e utilizzano il video come strumento didattico per favorire la formazione di una coscienza politica(cfr. i documenti delle lotte degli abitanti della Magliana).

Occorre inoltre  descrivere il lavoro di due artisti che nel nostro paese hanno utilizzato il video in modo innovativo: Luciano Giaccari e Alberto Grifi.

L’avventura col video di Luciano Giaccari inizia nel 1971 con la video registrazione dell’happening “Print Out” di Allan Kaprow: e’ dunque l’interesse per la documentazione degli eventi prodotti dall’arte del periodo a portare Giaccari verso il video. Il lavoro di documentazione col video porta Giaccari a riflettere da vicino sul mezzo, esplorando le sue potenzialità  linguistiche, sino alla redazione della “Classificazione dei metodi di impiego del video in arte”, in cui Giaccari tenta di fare ordine nella confusione che circonda il video, distinguendo tra un uso “diretto” di esso, quello degli artisti, che comprende il videotape e  la videoperformance, e un uso “mediato”, quello didattico-documentativo, che comprende la videodocumentazione, il videoreportage e la videodidattica.

La sua attività di produzione indipendente di video sull’arte viene però scoraggiata dalla mancanza di sensibilità per il video, una circostanza che a metà degli anni ’70 lo porta a rivolgersi ad altre situazioni artistiche come la musica e il teatro.

La mancanza di effettivo interesse per il video e la confusione sui suoi usi che lo circonda in quegli anni, assieme alla totale inesistenza di strutture pubbliche a cui riferirsi favorisce quindi un progressivo allontanamento dal nuovo mezzo. Infine il video, all’inizio, è un fenomeno principalmente americano in quanto è il capitale che decide la storia, ed esso viene facilmente instradato dagli investimenti economici che vengono fatti al suo riguardo.

Un'altra figura di spicco nel nostro paese per quanto riguarda l’innovativa utilizzazione del nuovo mezzo è Alberto Grifi, uno dei cineasti italiani indipendenti più radicali, che produce, nel 1972, “Anna”, un film interamente girato in video e perciò trasformato alla radice. A Grifi, abituato ai costi della pellicola, il video offre l’inaspettata libertà di “far andare metri di nastro senza preoccupazioni”, perciò la telecamera resta sempre accesa, e il fuoricampo si sovrappone pian piano alla sceneggiatura: la vita diviene scena e il set straripa fuori dai margini dell’inquadratura, rivelando la macchina cinematografica e le sue contraddizioni. La maneggevolezza del video e la durata dei nastri fanno  esplodere le regole del set che vogliono sotto il controllo della cinepresa una realtà rigidamente predeterminata e decisamente irreale; il lavoro dietro le quinte acquista così un’improvvisa rilevanza ed emerge un nuovo soggetto, portatore di istanze insospettate e capace di far emergere i limiti rappresentativi del cinema.

Nel video “Parco Lambro”, invece, Grifi registra una contestazione in corso, le sue telecamere catalizzano la partecipazione attiva delle persone e intervengono direttamente, mostrando dal basso e dall’interno la realtà dei fatti.

Un’esperienza a metà tra arte e controinformazione è infine quella svolta dal Laboratorio di Comunicazione Militante, formato nel 1976 come organismo che opera nell’ambiente sociale attraverso la critica al linguaggio del potere per un’arte prodotta dal basso, che vuole evitare i meccanismi dominanti di controllo e le mediazioni delle gallerie e dei critici, per assumere direttamente la gestione del proprio lavoro. Il tentativo è perciò quello di produrre arte attraverso un’attività volta a produrre controinformazione. Il laboratorio inizia perciò a progettare interventi in luoghi pubblici, dibattiti con gli studenti nei  quali il video è uno strumento in grado di evidenziare i meccanismi con cui si costruisce l’informazione ,è un mezzo di sperimentazione delle specifiche tecniche del linguaggio televisivo e uno strumento di animazione del lavoro di gruppo (il video e il circuito chiuso , usati in ambito artistico, ritornano all’interno di una situazione didattica per la formazione di una capacità critica sul modo in cui operano i mezzi di comunicazione. Il laboratorio tenta un’operazione artistica SUI GENERIS, dotata di intenzionalità didattica e attenzione per il proprio interlocutore, interessata inoltre a un rapporto col sociale che prefigura quelle esperienze oggi etichettate come “public art”.

L’attività del Laboratorio di Comunicazione termina nel 1979.

 

IL MONDO DIGITALE

Dall’elettronica analogica, in cui l’immagine è prodotta dai cambiamenti di voltaggio, la tecnologia video si è poi evoluta nell’elettronica digitale, in cui il segnale elettronico è costruito con piccoli frammenti d’immagine, i pixel, recuperati a determinati intervalli. Una vera e propria rivoluzione, che ha trasformato alla radice la relazione tra immagine e realtà e quella tra rappresentazione e autore della stessa.

Nel digitale, infatti, non vi è più un rapporto diretto tra la realtà e l’immagine, con l’inevitabile conseguenza del collasso del potere sovrano dell’autore sulla sua rappresentazione. Nelle nuove pratiche di rappresentazione non vi è più un unico punto di vista come nella prospettiva lineare, ma dei contesti visivi, l’ottica ha perciò ceduto la mano alla visione virtuale in cui le immagini possono essere prodotte o simulate dal nulla.

La nuova tecnologia recide perciò  il legame che univa l’immagine prodotta dai mezzi di riproduzione del visibile alla realtà; nasce perciò una nuova pratica rappresentativa in cui l’immagine è un modello informatico e quindi una “interpretazione”  della realtà stessa.

Il nuovo approccio al visivo dischiude un nonluogo illusorio, non più legato allo spazio fisico ma unicamente al tempo, un mondo mentale, ovvero, per usare la terminologia di Bill Viola, uno “spazio concettuale”.

Dato che l’unico referente dell’immagine, nel trattamento digitale, è l’immagine stessa, essa si trasforma di conseguenza in un oggetto a sé stante: accanto all’immagine bidimensionale comune a tutti i processi di rappresentazione utilizzati sino a quel momento dalla cultura figurativa, si costruisce ora una rappresentazione tridimensionale, una tridimensionalità priva di spessore che obbedisce al canone prospettico, però lo fa moltiplicando all’infinito i punti di vista e, così facendo, apre prospettive ardite e inusuali.

Una delle prime realizzazioni di questo tipo è il video “Mont Fuji”, realizzato nel 1985 dall’artista giapponese Ko Nakajima, nel quale l’immagine stessa del monte è riprodotta infinite volte sullo schermo, sino a formare un cubo sulle cui facce sono visibili tante piccole riproduzioni, ma il valore referenziale di queste immagini viene cancellato nelle fluttuazioni prospettiche e percettive messe in opera dall’artista.

Le tecnologie attuali permettono quindi di rilanciare in termini maggiormente costruttivi le utopie delle avanguardie artistiche di inizio secolo: la conquista della libertà per mezzo della bellezza che costituiva il loro programma, oggi può finalmente trasformarsi in una pratica della libertà per mezzo degli strumenti della comunicazione; per la sua struttura il computer è un mezzo ugualitario perché interattivo e facilmente utilizzabile da chiunque .