Alighiero Boetti

(Torino, 1940 – Roma, 1994)

 

Tiene nel 1967 la sua prima personale alla galleria Stein di Torino dove presenta opere scultoree costruite per accostamenti elementari di materiali industriali .

Partecipa subito dopo a tutte le collettive del gruppo Arte povera, di cui costituisce l’aspetto più concettuale. Nel 1968 realizza il fotomontaggio Gemelli che inaugura il tema del doppio, da ora sempre presente nel suo lavoro, e che lo spingerà a scindere la propria firma in Alighiero Boettti.

Lavora da un lato alla pura tautologia (Niente da vedere, niente da nascondere, 1968-69, una semplice vetrata montata su telaio), e dall’altro adotta pratiche basate sulla ripetizione reiterata del gesto, fra ossessione e meditazione zen, come in Cimento dell’armonia e dell’invenzione, dove ricalca pazientemente a matita le linee di una serie di fogli quadrettati. Questo uso "altro" del tempo,

che da produttivo e diacronico diviene circolare e quasi rituale, lo spinge sia alla serie di lavori postali (dalle lettere inviate e poi raccolte in un ordine basato sulla permutazione dei francobolli ai telegrammi che scandiscono il passare dei giorni), sia alla volontà di classificazione attestata nel libro-elenco dei fiumi più lunghi del mondo, realizzato con Anne-Marie Sauzeau dal 1970 al 1977.

Nel 1971 iniziano i suoi viaggi in Afghanistan, che diventa una sorta di seconda patria, e dove iniziano i lavori a ricamo, realizzati su suo disegno dal artigiani locali. Inizia così uno dei cicli più importanti nell’opera dell’artista, e dell’arte di quel tempo: i ricami coloratissimi ci restituiscono la mappa politica dei continenti dove ogni nazione è rappresentata dalla propria bandiera.

Boetti farà eseguire molti ricami sempre prestando attenzione ai mutamenti politici occorsi e perciò mutando le bandiere.

Fra il 1972 e il 1973 inizia Mettere al mondo il mondo, il ciclo di lavori eseguiti a biro, e Ordine e Disordine, i piccoli arazzi quadrati. Sono ambedue lavori ricorrenti in Boetti, che muteranno titolo ma non tecnica, e ambedue riguardano il linguaggio, la trascrizione da un protocollo all’altro e perciò la comunicabilità. Nel primo caso, il titolo dell’opera si può leggere associando alle lettere dell’alfabeto che scorrono in alto le virgole lasciate in bianco sulla superficie completamente satura di tratti a biro; nell’altro, la frase è leggibile solo dall’alto in basso. Inizia anche i lavori su carta dedicati alle progressioni aritmetiche, come in Storia naturale della moltiplicazione.

Dagli anni Settanta inizia a realizzare i ricalchi delle copertine di riviste di informazione, che associano al senso del tempo quello del documento delle vicende collettive, e i simmetrici disegni di La natura, una faccenda ottusa.

Nella prima metà degli anni Ottanta realizza un nuovo ciclo di arazzi di grandi dimensioni, denominati Tutto, dove appare un grande numero di immagini in silhouette che coprono completamente la superficie. Nel 1993 dà vita ad una grande opera collettiva, che coinvolge gli studenti di tutte le accademie d’arte francesi, ai quali è richiesto di realizzare i disegni di Alternando da uno a cento e viceversa, poi realizzati in arazzo dagli artigiani afgani ed esposti nel 1993 al Magagni di Grenoble. Sempre nel 1993 realizza invece un ironico autoritratto in forma di statua in bronzo perfettamente realistica, che lo ritrae nell’atto di innaffiarsi la testa con un getto d’acqua. L’opera diventa un’involontaria immagine di commiato, perché Alighiero Boetti muore il 24 Aprile 1994 a Roma.

Boetti è stato uno degli artisti italiani più riconosciuti a livello internazionale.

Pier Paolo Calzolari

(Bologna, 1943)

 

 

Tiene nel 1965 la prima mostra personale con opere pittoriche, e nel 1967 è fra gli artisti che espongono al Deposito d’Arte Presente di Torino in una delle iniziative inaugurali dell’Arte povera.

Usa ormai materiali non artistici, con cui allestisce installazioni complesse. In un orizzonte poetico di riferimenti che va dalla pittura bizantina alla lirica del Novecento, usa foglie di tabacco o di banano, scritte al neon, piombo , che adotta per la sua malleabilità atta a ricoprire le superfici più diverse, dalle pareti alle scalinate, così come farà con la margarina, e i motori dei frigoriferi attivati a ghiacciare gli elementi con cui è in contatto. Con la brina e il ghiaccio prodotti meccanicamente ottiene in colore bianco che si pone come essenza, come valore assoluto, mentre ogni altro bianco "pittorico" equivarrebbe ad una possibilità fra molte altre, e sarebbe inevitabilmente "relativa".

Il lavoro di Calzolari può essere visto come un dialogo inesausto fra l’istanza dell’assoluto e il mondo dei fenomeni che nella loro estrema relatività lo contraddicono ma anche lo inverano in nuove sintesi di senso.

Vengono così ghiacciati le panche la scale a pioli, e i materassi, elementi dell’esistenza e del quotidiano. Dal 1973 inoltre, con Canto sospeso dà vita a una performance a cui partecipano più persone, su un canovaccio preordinato che trae spunto da accadimenti dell’autobiografia dell’artista. Nello stesso tempo compaiono nel lavoro i simboli dell’infinito, in opere come Rapsodie inepte (infinito), 1969, in neon e foglie di tabacco, o nel guscio della lumaca che appare in Canto sospeso.

Questo tipo di dialettica presente fin dal 1966, riapparirà nel lavoro pittorico degli anni Settanta. In questi casi Calzolari si rivolge al linguaggio della pittura per mutarne radicalmente i connotati. All’inizio usa telai ma non tele, preferendo i mollettoni che si usano nella vita domestica, la carta intelata, i fogli di cartone, su cui interviene con tracce grafiche e con l’applicazione di oggetti reali come barchette di carta o trenini giocattolo in movimento reiterato. Queste opere si possono già vedere come monocromi trasgrediti, dove alla campitura unica, nitida come un assioma, si contrappone la vitalità tutta fenomenica della mano, e il "banale" mondo degli oggetti.

Questo rapporto viene portato alle estreme conseguenze nei veri e propri monocromi degli anni 1972-78, dove l’opera pittorica assume la complessità di una installazione ambientale.

Davanti alla tela trattata con un solo colore, ma spesso recante tracce manuali, l’artista pone materassi e sedili, sedie ed impermeabili, legni e metronomi, questi ultimi a misurare quella temporalità da cui il monocromo come traccia dell’assoluto. D’altra parte il dipinto viene integralmente sostituito dalle superfici coperte di sale, o di muschio, o ancora dai "quadri" ghiacciati per ritrovare l’essenza di cui l’artista è alla ricerca.

Le opere più recenti assumono le dimensioni di grandi sculture o di installazioni ambientali, ampie superfici di piombo applicate alla pareti o grandi griglie metalliche mutano la loro morfologia grazie all’opera dei motori ghiaccianti. Altri lavori lo vedono riprendere operativamente gli elementi costitutivi dei linguaggi dell’arte, dall’architettura alla pittura, in installazioni oggettuali che coinvolgono l’ambiente.

Giuseppe Penone

(Garessio, Cuneo, 1947)

 

Esordisce nel 1968 con azioni svolte a contatto con la natura, tese a visualizzare e modificare i processi di crescita naturali.

Le operazioni vengono documentate fotograficamente, come per gli alberi di Alpi Marittime, 1968.

Con il ciclo degli Alberi, cui si dedica dal 1969 e che prosegue fino agli anni più recenti, intaglia travi di legno fino a far emergere la struttura dell’albero che la trave è stata, prima di venir resa utensile dal lavoro umano.

Alla base della trave, o del blocco do legno, l’artista individua un anello fra quelli formatisi durante la crescita dell’albero e lo raggiunge "per forza di levare", come nella più classica tradizione scultorea.

Le modalità di esposizione contemplano sia la trave appoggiata al muro o posta a terra, in forma di bassorilievo, sia il blocco di legno diviso in due metà stanti nello spazio, come in un tutto tondo (Albero di quattro metri, 1969; Albero di dodici metri, 1987-91).

Penone si rivolge alla natura come generatrice di forme preculturali che la natura rielabora e a cui attribuisce senso. Della natura fanno parte il corpo umano e le sue relazioni con l’ambiente esterno, che l’artista tematizza in lavori come Svolgere la propria pelle (1970), Pressione (1974) o Palpebre (1978), dove le impronte dell’epidermide vengono ricamate tramite l’apposizione di nastri adesivi o di resina, stampate in diapositive, proiettate alle pareti o su grandi tele libere e ricalcate a carboncino.

Con Patate (1977) e Zucche (1978-79) delega invece la realizzazione dell’opera a processi di crescita naturali, che innesta senza poterli controllare completamente, a cui per altro è delegato il compito di creare il suo autoritratto.

Nei Soffi del 1978, in terracotta, e nei Soffi di foglie, realizzati con foglie vere o come fusione in bronzo, il contatto, per quanto basato su azioni semplici, fra la materia e il corpo è interamente programmato, ed emerge in primo piano il ruolo che quest’ultimo assume nel processo di creazione di forma.

Più immediato , ma simile, il processo che governa i Gesti vegetali degli anni Ottanta. In questi casi Penone costruisce figure antropomorfe in bronzo, la cui conformazione è determinata dal contatto della mano con la creta, e pone all’interno delle fusioni arbusti liberi di crescere autonomamente.

Molti altri lavori più recenti di Penone si basano su questo principio, come nel ciclo delle Propagazioni, o delle Terre d’ombra, ambedue della fine degli anni Novanta. Nei primi lavori, le impronte digitali diventano la matrice di una stesura ininterrotta di linee concentriche che dal foglio da disegno dove sono impresse conquistano la parete e l’intero ambiente, investito dall’energia di infinite linee andamentali. Nel secondo gruppo di opere, le impronte di particolari del volto o delle mani creano venature dove si inseriscono perpendicolarmente calchi in bronzo di foglie, che oppongono alla morfologia del corpo umano quella del vegetale.

In altri cicli di lavori, pareti del corpo, come le unghie o le volute del cervello, vengono visualizzate e ingigantite, in materie come vetro e acciaio, e presentate a contatto con elementi naturali per sottolineare la loro funzione di raccordo fra il soggetto e l’ambiente che lo circonda.

L’adozione che l’artista compie dei materiali più tipici del fare artistico, come il bronzo e il marmo, indica la volontà di confrontare i processi linguistici di una sterminata tradizione culturale e quelli formativi degli organismi viventi. Ne sono prova sia le fusioni in bronzo degli alberi collocati in esterno, a contatto diretto con la natura in operazioni quasi mimetiche (Faggio di Otterlo, 1988; Pozzo di Munster, 1987) o ciclo recente dei marmi bianchi delle Anatomie.

Penone è anche autore di testi poetici che accompagnano l’opera visiva.

Giuseppe Penone ha esordito giovanissimo nell’ambito dell’Arte povera. Da allora, il riconoscimento al suo lavoro è giunto da molti musei internazionali. Fra questi, ricordiamo il Kunstmuseum di Lucerna nel 1977, il Museum Folkwang di Essen nel 1978, lo Stedelijk Museum di Amsterdam nel 1980, la National Galery di Ottawa nel 1983, il Musée d’Art Moderne de la Ville

Luciano Fabro

(Torino, 1936)

 

"…ero convinto che occorreva, sì tornare alle cose, alla dialettica delle sollecitazioni, ma in maniera non episodica, non informale… negare che lo spazio venga espresso tramite la struttura che lo determina, asserire che lo spazio è il risultato delle nostre esperienze sensoriali è sempre illusionistico, necessariamente metaforico, la sua ragione d’essere sta nei confini, la sua ragione espressiva sta nel mimetizzarli. Teatro della mente tramite i sensi. Come un ferro piegato esprime la forza che vi è stata esercitata, come un sasso gettato dà un centro ai confini di una pozzanghera, un dito indica la direzione dello sguardo; così ci muoviamo in uno spazio tramite sollecitazioni di impressioni. In virtù di richiami."

Fabro realizza tra il 1963 ed il 1965 alcune opere in vetro, parte specchiato e parte trasparente, ed altre in leggeri tubolari di metallo che evidenziano forme e materiali come semplici vettori luminosi e dinamici. Sono del 1966 un bianco cubo in tela in cui infilarsi e degli altrettanto bianchi indumenti con cui coprire le proprie intimità (In cubo; Posaseni). Si trattò anche di una risposta dialettica alla spazialità di Lucio Fontana (intitolata Buco e Concetto spaziale alcune sue opere). Fanno seguito dei semplici attestati (tautologie) di quanto risulta da azioni assai comuni: il Contatto (1967) tra i due punti recisi di una stecca di metallo, la misura di un materiale che è stato bucato: Foro 0 mm. 6 ( 1967), la pulizia del pavimento e successiva copertura con dei giornali (Pavimento 1967); con quest’opera partecipa alla prima mostra dell’Arte povera , Mappamondo geodetico 1968. Azzera la funzione simbolica collettiva di immagini di grande riconoscibilità in L’occhio di Dio (1968), Tamerlano, L’Italia (appesa al contrario),1968, Tre modi di mettere le lenzuola (1968), Lo spirato, sul cui fondo incide: Io rappresento l’ingombro dell’oggetto nella vanità dell’ideologia, o i vari Piedi che da allora di tanto in tanto riprende in varie forme utilizzando in maniera impeccabile le tecniche artigianali di lavorazione del marmo, del bronzo e dei tessuti. Gli Attaccapanni (1976 ed oltre) "sono dedicati alla luce: come complemento di luogo, di tempo e di senso".

Negli anni Ottanta, specialmente, mette a punto alcune opere che chiama Habitat perché "…luoghi confortevoli". Nel frattempo avevano preso avvio "opere la cui immagine è centrata sulla rappresentazione di un preciso significato…": Io ( 1978, uovo in bronzo che virtualmente contiene al suo interno l’autore in posizione fetale), Paolo Uccello (1984, pone in questione le linee della prospettiva), Due nudi che scendono le scale ballando il Boogie-Woogie (1989, volta a rappresentare il connubio tra Duchamp e Mondrian all’origine della cultura figurativa americana moderna, i Computers (1988…, sul naturale costruirsi delle forme), Nadezda (1990, espressione della resistenza biologica della poesia), fino alla rappresentazione di Kronos, di La Luna, e del Sole di è la vita, è la storia, è la morale. A seguito di tutto ciò, verso la fine degli anni Novanta, cominciò ad apparire una serie di proposizioni teoriche e di mostre sul concetto di immagine allo stato originario: L’immagine naturale. Sempre negli anni Novanta realizza alcune opere pubbliche: sull’iconografia civile, Contratto sociale,1992, Breda (Olanda); sull’iconografia urbana: Giardino all’italiana, 1994, in una piazza a Basilea; sull’iconografia della natura: Nido, 1994, in una riserva naturale a Rost (Norvegia); sull’iconografia religiosa: Izanami, Izannagi, Amaterasu, 1999, in Giappone; sull’iconografia funeraria: Tumulus, 1999, a Nordhorf (Germania).