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Intervista

Rivoluzione tecnologica e identità

 

La società informazionale nell'interpretazione del sociologo Manuel Castells

Un'interpretazione forte della rivoluzione tecnologica, un lavoro ambizioso che spazia dalla sociologia all'economia, dalla psicologia alla politica: si tratta della trilogia sull'era dell'informazione del sociologo spagnolo sessantenne Manuel Castells, che intende indagare il passaggio da una società industriale a una società informazionale, in tutti i suoi aspetti.

Castells, che insegna all'Università di Berkeley, ha scritto i tre volumi della sua opera, (The rise of network society, The power of identity e The end of millennium, tra il 1995 e il 1999). Ora sono tradotti in 12 lingue. In questa imponente operazione gli effetti sociali della rivoluzione tecnologica vengono indagati e analizzati nella trasformazione del lavoro e dell'impresa, della famiglia, dei mass media, dell'economia, del paesaggio urbano, ma anche nella percezione della realtà e del sé.

Per la casa editrice dell'Università Bocconi di Milano è uscito il primo volume della trilogia, La nascita della società in rete, mentre è in previsione per la fine dell'anno la pubblicazione de Il potere delle identità.

 

Nel primo volume della sua trilogia sull'età dell'informazione, La nascita della società in Rete, lei traccia la storia della rivoluzione tecnologica. Quali sono state le caratteristiche di questa rivoluzione? E come potrebbe definirla?

Il più importante cambiamento avvenuto è che adesso possiamo scambiare informazioni e comunicare con chiunque, in qualsiasi luogo e riguardo qualsiasi aspetto della nostra vita. Diventa possibile trasformare queste informazioni in conoscenze che possiamo poi impiegare per diventare più efficaci, più competitivi o più produttivi nelle nostre rivendicazioni socio-politiche.

 

Lei tiene a sottolineare che la tecnologia non determina la società, ma piuttosto il contrario. Quale struttura sociale sta alla base della rivoluzione tecnologica?

Direi, l'emergere di quella che io chiamo "Network society": una società, cioè, che si sposta dall'impostazione sostanzialmente verticale delle burocrazie che hanno governato l'umanità per millenni - eserciti, stati, grandi aziende - per andare invece verso un'organizzazione a rete. Anche le grandi aziende, ad esempio, o l'esercito, si stanno trasformando in reti, che sono più flessibili, si adattano con maggiore facilità. Questo, però, non vuol dire che diventano necessariamente "buone": se gli obiettivi di una società sono negativi, un'azienda organizzata in reti produrrà in modo più efficiente questi obiettivi negativi. Quello che cambia, insomma, è la forma di produzione.
Una rete deve essere dotata di quella tecnologia che consente di centralizzare e decentrare allo stesso tempo, passando quindi dal locale al globale e dal globale al locale.

 

Nei suoi libri il tema dell'identità è centrale. Ad un certo punto, la definisce come la principale, se non l'unica, fonte di senso in un periodo storico caratterizzato da destrutturazione delle organizzazioni, delegittimazione delle istituzioni, estinzione dei maggiori movimenti sociali e da espressioni culturali effimere. Ci può spiegare meglio che cosa vuol dire?

Viviamo in un mondo globale, un mondo dove la nostra economia, i nostri soldi, le decisioni politiche e tutto il resto dipendono da queste reti. In questo mondo, la maggior parte di noi si sente perso. Di fronte a questo sentimento, si cerca di far riferimento a qualcosa che vada alle radici, qualcosa che abbia significato per noi stessi, non per il mercato finanziario o per le grandi società e i governi. Questo senso del "chi siamo" nella storia e nella cultura è racchiuso nel concetto di "identità". Si può parlare di identità religiosa, identità nazionale, identità sessuale, identità locale: insomma, tutto quello che ha importanza per il singolo. Questa identità può essere individuale, ma, in ogni caso, è l'ancora che consente di navigare nell'oceano della globalizzazione.

 

Il concetto di rete riveste un ruolo centrale nella sua caratterizzazione della società nell'età dell'informazione. Ce lo può definire?

Tecnicamente, una rete è un insieme di nodi collegati fra di loro; in pratica, possiamo dire che in una rete non esiste un centro, ma elementi che si relazionano l'uno con l'altro, come in un rapporto tra persone, o in un'azienda, dove i diversi reparti interagiscono e i dipendenti stabiliscono delle relazioni.

Insomma, non si tratta di una gerarchia verticale che ruota attorno ad un centro, ma di un'impostazione orizzontale. Le reti sono sempre esistite; la novità sta nelle tecnologie di cui dispongono, che sono tecnologie elettroniche, Internet, tecnologie informatiche;: questi dispositivi rendono le reti molto più efficienti nel coordinare le loro attività simultanee e nel decentrare concretamente quello che sono in grado di fare.

 

Lei sostiene che la nostra epoca è caratterizzata dal capitalismo informazionale. Di che tipo di sistema economico si tratta?

Il capitalismo è sempre il capitalismo, nel senso che, alla fine, sono necessari dei profitti per far funzionare gli ingranaggi di questo macchinario. D'altro canto, questa creazione del valore dipende da conoscenza e informazione. Senza idee, questo mondo non esisterebbe. Se si ha una buona idea, in ultima analisi, si riuscirà a trarne un profitto; se si hanno dei soldi, ma non si hanno buone idee, alla fine i soldi finiranno. È questa l'idea di fondo del capitalismo della conoscenza.

 

Lei definisce la new economy come informazionale, globale e interconnessa. Come interagiscono tra loro questi vari aspetti?

Senza reti, non potrebbe esistere economia globale. L'economia globale non è una grande sfera che comprende e include tutto e tutti; si basa su mercati finanziari interdipendenti, che sono fatti di computer che organizzano le transazioni tra un punto e un altro del pianeta, ogni giorno, in tempo reale o in un momento dato. Allo stesso tempo, per fare queste transazioni alla velocità della luce, si ha bisogno di buone informazioni, buone conoscenze e buoni computer. Il sistema è quindi basato, allo stesso tempo, sulla capacità tecnologica di elaborare le informazioni in conoscenza e comunicare globalmente, e sulla capacità di collegare quanto c'è di importante nel mondo e portarlo all'interno dello stesso network.

 

Come cambiano la struttura e l'organizzazione del lavoro?

Fondamentalmente, il lavoro diventa, ed è già diventato, molto più flessibile. Un lavoro flessibile crea anche dei lavoratori flessibili, con la capacità di adattarsi alle esigenze del momento e alle richieste delle tecnologie. Ma, d'altro canto, questo ha creato, e direi ragionevolmente, molta insicurezza tra i lavoratori. Un lavoratore insicuro, però, è un lavoratore non produttivo; l'obiettivo deve essere quello di combinare flessibilità e sicurezza: flessibilità nel processo di lavoro e sicurezza fornita alla società dallo stato, attraverso i sistemi di previdenza sociale. Così si eliminano insicurezza e instabilità dalla vita dei lavoratori. La flessibilità deve essere garantita dall'organizzazione delle aziende, mentre la sicurezza dalle istituzioni e dal rispetto del contratto sociale. Questo è il vero connubio al quale aspirare.

 

Che cosa intende per cultura della virtualità reale?

La televisione non è la nostra vita virtuale, ma la nostra vita reale. Quello che vediamo in televisione è una parte fondamentale della nostra vita. Se si intende quindi ignorare quello che scorre sugli schermi delle televisioni, si finisce per essere esclusi dalla nostra società. Questo non vuol dire, però, che tutto sia adeguato alla rappresentazione televisiva. Anzi, proprio perché riveste un ruolo così importante nella nostra vita, dobbiamo fare in modo che sia migliore di quanto non è oggi.

 

Lei afferma che l'età dell'informazione sta dando vita a una nuova forma urbana, la città informazionale. Quali sono le caratteristiche di questa città?

La città sta diventando enorme, una megalopoli, che integra città e paesi preesistenti in un'unica forma urbana. Si tratta di un processo altamente decentralizzante, se lo consideriamo dall'interno, ma che, allo stesso tempo, collega e riunisce molte città e aree metropolitane di varie parti del mondo. Si assiste quindi ad una diffusione delle residenze e dei luoghi di lavoro in tutta l'area metropolitana, e, allo stesso tempo, al collegamento di tutti questi punti attraverso un sistema di trasporto, di comunicazione, o Internet. Insomma, viviamo in un pianeta fatto di unità spaziali molto grandi che sono collegate l'un l'altra, tra paese e paese e tra continente e continente, e questo collegamento si sta facendo sempre più stretto. Stiamo vivendo in un mondo che assomiglia sempre più ad un'unica grande megalopoli.

 

Lei sostiene che l'era informatica è caratterizzata dalla modificazione dei connotati stessi della percezione del reale, a partire dalle nozioni di spazio e tempo. Quali sono e come sono cambiate queste nozioni?

L'aspetto principale è che il tempo è sottoposto a pressione dall'organizzazione sociale. In altre parole, noi abbiamo una tendenza ad eliminare la variabile tempo. Pensiamo ai mercati finanziari: i mercati finanziari ambiscono a ridurre al minimo il tempo che intercorre tra l'investimento e la percezione del profitto derivante da questo investimento attraverso transazioni elettroniche ad alta velocità. Oppure prendiamo le guerre: prima duravano anni, decenni; oggi, invece, ambiamo ad avere guerre di cinque minuti che, impiegando tecnologie devastanti, riescono ad uccidere decine di migliaia di persone in un brevissimo lasso di tempo e ad aggiudicarsi così la vittoria, evitando conflitti lunghi e dispendiosi. Tuttavia, direi che questa è la tendenza che deriva dall'organizzazione sociale nelle società dominanti. Accanto a queste transazioni economiche fulminee o a queste guerre istantanee, però, esistono anche guerre lunghe, lente, crudeli, come quella in Sudan, che coinvolge venti milioni di persone e che ha portato alla morte di due milioni di esseri umani negli ultimi vent'anni. Oppure, accanto alle transazioni finanziarie che si muovono alla velocità della luce, abbiamo persone che non hanno abbastanza tempo da dedicare a loro stessi. Quindi, se è vero che si va verso l'eliminazione del tempo, è anche vero che questa è la tendenza delle persone e delle attività dominanti, e non della società in generale.

 

Ci può spiegare in che senso lei sostiene che il tentativo di esiliare la morte dalle nostre vite è una caratteristica distintiva delle nuova cultura?

Tutte le culture hanno cercato di onorare la morte, attraverso la celebrazione del lutto e attraverso una riflessione sulla morte. Nella nostra cultura, invece, la morte è negata, nel senso che la abbiamo esiliata dalle nostre case per relegarla negli ospedali; gli ultimi istanti di vita di una persona vengono spesso vissuti lontano dal luogo dell'affetto dei propri cari o dei propri amici. È anche interessante notare che spesso le persone nel mondo si oppongono all'ubicazione dei cimiteri in prossimità delle zone abitate: la morte deve essere tenuta al di fuori del proprio orizzonte quotidiano. Questa è una cultura del consumo immediato, una cultura dove la gente vuole essere gratificata all'istante, senza pensare a lungo termine. Se non pensiamo alla morte mentre siamo in vita, in realtà neghiamo la morte, perché non ce ne rendiamo conto, e tutto finisce così.

 

Estremamente attuali, anzi addirittura profetiche, sono le sue considerazioni sulle guerre tecnologiche privilegio delle nazioni tecnologicamente dominanti e del terrorismo come la nuova forma di conflitto violento. Potrebbe riassumercele?

La guerra tecnologica è un privilegio delle nazioni che sono tecnologicamente avanzate, ma è anche il privilegio di quelle reti terroristiche che hanno un potere economico sufficiente ad essere ugualmente avanzate tecnologicamente. Alle tecnologie degli aerei elettronici dell'ultima generazione si oppone quindi la tecnologia di connessione delle reti che porta a costruire delle bombe biologiche o nucleari all'interno di un laboratorio scolastico. Ci stiamo addentrando in un mondo diverso, con guerre che sfrutteranno le tecnologie che abbiamo creato. Se avremo un mondo pacifico, queste tecnologie verranno messe al servizio del bene e dello sviluppo dell'umanità; se il nostro, invece, non sarà un mondo pacifico, l'umanità finirà per usare queste tecnologie per il peggiore degli scopi. Abbiamo utilizzato il potere nucleare per uccidere centinaia di migliaia di giapponesi: si finirà per ripetere cose del genere; negli Stati Uniti, ad esempio, c'è già chi pensa ad armi nucleari limitate per operazioni militari limitate. Se il nostro mondo non cambierà, la tecnologia finirà per diventare la nostra distruzione.

 

Fonte bibliografica: Mediamente, rubrica della RAI -   Intervista del 3 maggio 2002

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