Dai rapporti con la tecnica alle ibridazioni: evoluzione del concetto
di. «post-human»
Fra i ritagli di giornale che si accumulano da qualche mese sulla mia
scrivania ve ne sono alcuni che potrebbero suscitare qualche inquietudine.
Nel t itolo compare immancabilmente la parola «robot», ma
nel testo si parla in genere di esperimenti tesi a realizzare un collegamento
fra il cervello (animale o umano) e il computer, che funzioni nei due
sensi: tale cioè che il cervello sia in grado di inviare comandi
al computer (e azionare così, per esempio, dei dispositivi),
e il computer sia in grado di inviare al cervello dei feedback di tipo
sensoriale. I due esperimenti che più di altri hanno catalizzato
l'attenzione dei giornali sono stati quello di Kevin Warwick, dell'Università
di Reading in Inghilterra, che con un chip impiantato sottopelle intendeva
controllare alcuni dispositivi elettrici di casa sua; e quello di Sanjiv
Talwar del Downstate Medical Center di Brooklyn, che in un articolo
pubblicato su Nature del maggio di quest'anno descriveva il controllo
a distanza di alcuni topi a cui erano stati impiantati nel cervello
degli elettrodi, e i cui movimenti venivano così direttamente
guidati dai ricercatori.
D'accordo, in quest'ultimo caso si tratta ancora di piccoli mammiferi,
e non di uomini. Ma il senso della ricerca è chiaro. In meno
di cinquant'anni la comunicazione fra il cervello e l'elettronica ha
fatto passi da gigante, e con essa l'invasione del corpo da parte della
tecnologia. La rivoluzione delle telecomunicazioni, iniziata un secolo
e mezzo fa col telegrafo, sta ormai per insediarsi stabilmente all'interno
stesso del nostro corpo. E si annuncia già una terza e più
sconvolgente prospettiva nel processo di artificializzazione del corpo:
quella del controllo del patrimonio genetico dell'individuo. Corpo invaso
dalla tecnologia, corpo disseminato nelle reti di telecomunicazioni,
corpo geneticamente modificato: il cyborg, l'organismo cibernetico che
su una base umana innesta delle componenti artificiali, si sta spostando
con velocità impressionante dalle pagine della fantascienza alla
vita reale. Per la prima volta una specie animale su questo pianeta
sembra in grado di «prodursi», e non più solo di
«riprodursi». Certo, è legittimo nutrire dei dubbi
che tutto ciò, come sostengono alcuni, configuri una liberazione
dell'uomo dai vincoli della biologia. Ma non è più così
fantastico o irrealistico chiedersi se l'umanità stia davvero
incamminandosi a superare se stessa: e in questo caso, che cosa verrebbe
«dopo l'uomo»?
Il termine postumano, post-human, è stato reso popolare una decina
d'anni fa da una mostra d'arte contemporanea curata dal critico Jeffrey
Deitck (in Italia è stata ospitata al Museo di Rivoli), e da
allora si è proposto come il concetto più radicale della
famiglia dei «post-» che imperversano nella cultura mondiale.
Ma si sa che nell'arte (e in certa critica d'arte) l'eccesso di metafora
a volte può oscurare quel po' di chiarezza del pensiero a cui
ancora possiamo sperare di aspirare. E perciò non sembra fuori
luogo interrogarsi, ancora una volta, sulla fondatezza scientifica e
antropologica della nostra «fuoruscita dalla biologia».