Testi, ipertesti, immagini, corpi

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Di fronte alle apocalittiche previsioni sulla morte del libro, Umberto Eco ha ragione: fino a che non si sarà trovata una tecnologia migliore e più semplice di un insieme di fogli di carta che si possono sfogliare e leggere comodamente in qualsiasi situazione (al tavolino, seduti in metropolitana, distesi a letto) il libro è salvo. È ridicolo pensare che un aggeggio ingombrante come un tubo catodico possa far concorrenza al buon vecchio libro, se si tratta di leggere. Ma neppure lo schermo a cristalli liquidi di un portatile è un concorrente credibile alla maneggevolezza del libro. Perciò gli operatori del libro dormano pure sonni tranquilli.
Eppure… anche rassicurati dal buon senso semiotizzato di Eco, forse qualche dubbio possiamo averlo. Intanto tutto va bene fino a che le tecnologie del computer sono quelle che conosciamo oggi; ma se il computer, come racconta Bruce Sterling nelle sue conferenze, diventasse un fazzolettino, qualcosa che ha la consistenza della stoffa o della tela, qualcosa che posso estrarre di tasca quando voglio e utilizzare molto più comodamente di oggi in tutte le situazioni? Ma in fondo, poi, neppure questo è così importante. Perché la forma libro così come noi la conosciamo è qualcosa di molto recente, non ha più di qualche secolo, ed è tipica della cultura occidentale moderna: nasce con la tecnica della stampa a caratteri mobili introdotta da Gutenberg. Quella particolare forma può quindi nascere e morire senza che venga intaccato il substrato su cui essa si basa. Ma il "libro" è invece qualcosa di molto più antico, ed è nato in forme molto diverse dai libri attuali: tavolette, fogli o rotoli di papiro o di pergamena. La parola "volume", che noi usiamo oggi per indicare quell’insieme di fogli attaccati per il dorso, che si sfogliano uno a uno, ha invece un'altra etimologia, e indica qualcosa che "volve", che si srotola, un cilindro arrotolato che si dipana, come la Torah della religione ebraica, qualcosa di un po’ più complicato da usare rispetto ai nostri "libri": un "volume" di questo tipo non potremmo leggerlo così agevolmente nel metrò.
E perciò, bando alla "feticizzazione" delle parole, non scambiamo la forma per la sostanza, o meglio (dato che anche questo è un luogo comune insidioso, e la forma spesso è sostanza), scegliamo bene le forme da feticizzare. Non è la supposta morte del "libro" che preoccupa gli intellettuali, oggi, ma l'eventuale morte (o, fuori di metafora, il ridimensionamento, la fine dell'egemonia) della scrittura: di quella forma di comunicazione, cioè, che da oltre tre secoli struttura e informa il modo di pensare, di percepire il mondo, di vivere la vita, dell'uomo neolitico e del suo più recente parto, l'uomo industriale.