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...E all'arte quel che è dell'arte

 

di Matteo Chini

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(conferenza a cura di Tommaso Tozzi per il progetto “Arte, Media e Comunicazione”, 1997)

 

Nessuno può più sorprendersi del fatto che anche un paio di calzoni possa essere considerato arte. Almeno dal 1917, da quando cioé Marcel Duchamp propose di esporre al "Salon des Indèpendants" un orinatoio di porcellana capovolto e firmato. Tra le molte e differenti implicazioni che quel gesto ebbe, la pricipale, crediamo, fu quella di aver sottolineato con forza (irridendolo) il ruolo estetico svolto dal contesto (la mostra, il museo) nel quale la "Fontana" doveva essere esibita. Da quel momento in poi l'idea che il plus-valore "arte" potesse risiedere non nell'oggetto stesso ma proprio nel contesto - nel nostro sguardo, nelle strutture legittimanti del sistema culturale - ha abitato in modo stabile il dibattito, la produzione e la ricezione dell'arte contemporanea. Così che essa ormai non si presenta più come il frutto di una tecnica particolare, ma (invertendo il rapporto precedente) come il prodotto di un'attività speculativa che utilizza la tecnica a proprio piacimento. Questo nuovo stadio dell'arte é stato chiamato da Odo Marquard, con una ridondanza solo apparente, "Arte estetica", un'espressione che marca con precisione il distacco tra l'arte moderna (ma bisognerebbe con Barilli già parlare di arte contemporanea) e l'arte "inconsapevole" di prima[1]. E' la famosa "intenzionalità" insita nella pratica creativa del '900 di cui anche alcuni storici dell'arte, come Baxandall[2], si sono da tempo avveduti. L'arte, facendosi adulta, si differenzia dalla "tèchne", dalla maestria nel realizzare un oggetto o un'azione. Essa si concettualizza, esige una presa di posizione, una poetica che includa una chiara coscienza del suo stesso operare. E nello stesso tempo i limiti fisici dei media artistici vengono tesi oltre le loro tradizionali frontiere da una sperimentazione incessante. Nascono nuove tecniche (la fotografia, il cinema, il design) che pretendono con ottime ragioni di sedersi insieme alla pittura, alla scultura ed all'architettura nell'Olimpo delle Belle Arti. E così se da una parte il Parnaso si infittisce sempre più di una folla caotica di presenze, dall'altra "l'arte come idea" prende il volo e, in un movimento lento ma inesorabile, si libera definitivamente della tecnica, si svincola dalla capacità di esecuzione o dalla fedeltà ai paradigmi di un medium determinato. L'arte é ora un "nome proprio"[3], designa senza descrivere, é un'etichetta che si può applicare ai prodotti più diversi dell'attività umana ma che non indica più l'appartenenza ad una "ars" specifica o ad una pratica già costituita. Fumetti, moda, infografia, rock, tatuaggi, fotocopie: tutto può essere arte. O meglio tutto può essere presentato nella speciale modalità dell'arte. E lo possono essere a fortiori anche media non specifici, "off-media" e "intermedia", come un happening di teatro e danza, un'installazione video multimediale o altro ancora. L'arte insomma é un nome con il quale indichiamo lo speciale "uso" che facciamo di un oggetto, di una tecnica o di una azione qualsiasi[4].

Che anche un paio di calzoni possa essere considerato "arte" (se "utilizzato" in un tale contesto) é dunque un'ovvietà. Ma che cosa può significare allora l'insistente accostamento, da parte di media e intellettuali dell'arte alla moda? E ancora, quale nesso si potrà mai ricavare dal diretto confronto, messo in opera da alcune recenti manifestazioni, tra le produzioni degli artisti e quelle degli stilisti? Non si vorrà forse asserire ancora una volta che la moda é un veicolo espressivo artistico "di per sé", meritevole "di per sé" di entrare a pieno titolo in un ricostituito Olimpo delle Belle Arti? Non sembra lontano da quest'idea Germano Celant - curatore della pur significativa, per impegno e presenze internazionali, Biennale Arte/Moda di Firenze - quando afferma: "[la vicenda della Moda] si può paragonare alle vicende della fotografia, il cui percorso per essere accettata nell'olimpo delle altre arti é stato osteggiato e controverso. Entrambe hanno impiegato un tempo enorme e più per essere acquisite e collezionate, considerate e studiate scientificamente"[5]. L'artisticità sembra dunque risiedere ancora una volta nel medium. Come dire che chi lavora con la fotografia o con le forbici deve per forza possedere una poetica (ma ce l'hanno i fotografi di matrimoni o le sarte?). Eppure proprio in Italia nella pioneristica riflessione sulla moda di Gillo Dorlfes non vi é quasi traccia del problema dell'artisticità in sé della moda[6]: "prÍt à porter" e "haute couture" sono sempre accostati ad entità omogenee: rock, jazz, sport, cinema, ecc... Una tecnica é messa in relazione con una tecnica, un fenomeno di costume con un'altro. E proprio da questa lezione potremmo ricavarne che non esiste, per così dire, un terreno di confronto comune tra arte e moda più di quanto non ve ne sia uno tra arte e apicultura o tra arte e chirurgia. Nel senso che si può fare arte con l'apicultura (Beuys) o con la chirurgia (Orlan) ma non si pretende che ogni esperto di etologia animale oppure ogni chirurgo estetico sia un artista. Detto in altri termini: l'arte non ha più media specifici con i quali esprimersi. Se così fosse potremmo correre il rischio di dover assistere, impotenti, ad una Biennale Arte/Pittura che confronti da un lato gli "artisti" accreditati e dall'altro gli "specialisti" del medium: pittori da trattoria, caricaturisti, cesellatori di romantiche marine spumeggianti. Ma, lo so bene da me, una mostra così non la vedremo mai, e non solo perché é un assurdo in termini, ma anche perché il lavoro artigianale non paga (é un fatto) come quello dello "star system" della moda.  Per questi motivi credo fortemente che sia non solo legittimo, ma politicamente correttissimo continuare ad ignorare placidamente i nutrimenti spirituali di Gaultier e di Versace o le profonde riflessioni sulla forma di Armani e di Klein (pur apprezzando al più alto grado la loro creatività e la loro abilità di "businness men"). Come i baccelloni de "L'invasione degli ultracorpi" essi sono tra di noi, repliche perfette ma senz'anima dell'umanità dell'arte, impeccabili sosia estetici a cui l'arte deve porre (é suo compito da un'infinità di tempo) le sue perturbanti interrogazioni.

 

Matteo Chini

 

 

Matteo Chini

Immaginario e nuove tecnologie

 

 

Sensazioni

La mia vita è accompagnata da sensazioni ancora mai esistite. Ad appena 5 anni mi sono stati ficcati nelle orecchie i tubi di gomma del fonografo di Edison. 8 anni: a Smolensk corro appresso alla prima vettura elettrica e tutti i cavalli da tiro, di fronte a questa forza infernale, scappano dalla città. Ancora alcuni anni: e in Germania volano volano sulla mia testa le bolle d’aria di Zeppelin e gli aerei capriolano nei loro looping the loop. Di giorno in giorno si accresce il mio ritmo vibratorio. Anche quando, grazie a un difetto di motore, vado a piedi, vedo tuttavia come entro pochi anni la nostra miserabile velocità di poche centinaia di chilometri all’ora ci parrà una corsa di lumache.

Compressione della materia

La mia culla l’ha dondolata la macchina a vapore. Che nel frattempo si è dissolta in una lontananza da ittiosauro. Le macchine smettono i grassi ventri pieni di budella. Sono già vivi i crani compressi delle dinamo con il loro cervello elettrico. La materia e lo spirito vengono tradotti in manovelle e messi in funzione. La gravitazione e l’inerzia sono superate.

I miei occhi

Gli obbiettivi e gli oculari, gli strumenti di precisione e le macchine reflex, il cinema con il rallentatore e l’acceleratore, i raggi Rˆntgen e X,Y, Z, hanno messo sulla mia fronte altri 20, 2.000, 2.000.000 di occhi che frugano acutissimi, affilati.

(El Lisitskij, Il film della vita di El fino al 1926)[7]

 

E’ un brano che contiene una constatazione importante. El Lisitskij infatti intuisce di essere alle soglie di un cambiamento sociale e tecnologico radicale che dall’universo della meccanica lo proietterà inevitabilmente in un mondo più impalpabile e veloce dominato dall’elettricità: dai “grassi ventri” delle macchine ai “crani compressi delle dinamo”. Molto è già cambiato nel panorama tecnologico che lo circonda, e questo cambiamento ha a che vedere non solo con la cultura materiale ma anche con la comune percezione del mondo, qui rappresentata soprattutto dalla velocità degli spostamenti e dall’accelerazione dell’informazione. Ben prima di McLuhan, egli è consapevole di trovarsi in bilico su uno spartiacque al di là del quale vi è ancora l’universo positivista, metaforizzato dall’immagine della macchina a vapore, ed al di qua del quale si aprono scenari totalmente inediti di conoscenza e creatività. El Lisitskij però vuole anche polemizzare e chiamare a raccolta i suoi contemporanei: non soltanto la percezione è influenzata dalle nuove possibilità tecnologiche, ma l’immaginazione stessa può e deve rispondere questa condizione culturale profondamente mutata. Non è più il tempo di dipingere nature morte o paesaggi, ma forse - e qui vi è uno scarto notevole - non è più il tempo di dipingere in assoluto, bisogna fare i conti con i nuovi mezzi che hanno cambiato l’immaginario stesso. Non dimentichiamo che questi sono gli anni in cui molti artisti sono affascinati da media sempre più potenti come ad esempio il cinematografo (Emak Bakia e Anemic Cinéma, rispettivamente di Man Ray e di Duchamp, furono realizzati proprio del 1926). Dunque i miti della prima modernità stanno lentamente scomparendo ed altri, quelli della contemporaneità (o della post-modernità), stanno affiorando a poco a poco. CosÏ una delle figure che hanno ossessionato l’immaginario creativo, prima ancora che artistico, a cavallo del secolo, quella della macchina, riceverà il colpo di grazia proprio da questa generazione di artisti, la stessa che aveva prodotto con il Futurismo un’esaltazione assolutamente acritica della tecnologia.

Infatti, facendo un passo indietro, possiamo vedere come da Cartesio in poi il mondo stesso sia esemplato sulla struttura della macchina. Si parla di uomo-macchina (La Mettrie) per spiegare il funzionamento biologico del corpo umano, seguendo l’esempio dello stesso Cartesio che aveva paragonato il corpo ad un meccanismo di orologeria. L’idea generale che sorregge questo discorso è che la conoscenza proceda per via di scomposizioni, dal tutto alle parti, separando l’oggetto da conoscere in elementi sempre più piccoli. E’ la strada maestra, a lungo battuta dalle scienze moderne, dell’analisi. L’utopia dell’analisi, potremmo dire. Fenomeno, questo, che ha portato, nel mondo delle scienze, al predominio assoluto della fisica sulle altre discipline. E, all’interno della fisica, all’ipotesi dell’atomo come mattone fondamentale della materia. Potremmo dunque parlare dell’immaginario scientifico moderno (o premoderno) come di una struttura fortemente segnata (e non solo metodologicamente) dal paradigma riduzionistico, elementarista. E i dadaisti, perlomeno nel campo dell’arte, faranno piazza pulita proprio del suo simbolo maggiore: l’ideologia della macchina. Le famose “macchine celibi” di Duchamp e Man Ray faranno infatti inceppare l’impersonalità seriale della produzione industriale reinserendo nel corpo stesso della macchina espliciti riferimenti erotici. E’ una sorta di luddismo sessuale. La macchina non produce più nulla, ma riproduce se stessa, o per dirla con Deleuze e Guattari, “non c’è più ne corpo, ne natura, ma unicamente processo che produce l’uno nell’altra e accoppia le macchine”[8]. E se già in questi primi esempi si possono trovare i prodromi di un drastico rivolgimento epistemologico, è soltanto dopo glli anni ‘40 che viene elaborato consapevolmente un paradigma sostitutivo di quello meccanicistico. E’ l’idea della “rete”, un’idea che stravolge l’organizzazione gerarchica delle scienze e del mondo e introduce il concetto dell’assenza di un centro (occorre ricordare che i dadaisti aboliscono le barriere tra le varie arti?) nella griglia conoscitiva dell’uomo moderno. La nuova concezione, olistica e sistemica tanto per usare termini alla moda, restituisce importanza alle relazioni togliendo rilevanza ai singoli oggetti. Quel che importa infatti è il funzionamento generale di un sistema più che la sommatoria delle sue componenti. Perché Il tutto, come ci ricorda la psicologia della Gestalt, è superiore alla somma delle parti. L’immagine della rete, che rappresenta da questo momento in poi una metafora della vita[9], fa cadere alcune vecchie reificazioni come le antiche (e occidentali) barriere tra mente, materia e vita. Ed anche a questo livello è possibile istituire fruttuosi parallelismi con le arti visive. Gli artisti “informali” degli anni ‘50, ad esempio, riscoprono un’organicità che pervade soggetto e oggetto dissolvendo ogni possibile barriera tra mente e corpo (è l’esperienza della guerra), mentre alla fine degli anni ‘60 Land Art e Arte Povera insisteranno sulla relazione stretta tra natura e tecnologia, tra libera crescita e squadratura meccanica.

L’idea che la rete porta con sé è quella di un sistema integrato, dinamico, antistatico. E la figura dominante è quella della circolazione. Non a caso lo storico dell’arte René Berger fissa la sua attenzione sulla circolazione delle informazioni, ma anche sulla circolazione stradale (e Crash di Ballard ne fornisce una splendida metafora) come caratteristica imprescindibile del nuovo universo elettronico[10]. L’immagine stessa circola al suo interno, le cose si confondono. Di qui il flusso, o, per citare ancora Berger, il “proteismo” delle figure dell’epoca del computer. Già i Futuristi dichiaravano in un famoso manifesto del 1910 che “tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Una figura non è mai stabile davanti a noi, ma appare e scompare incessantemente”. E nel 1950 Norbert Wiener, il padre della cibernetica, avrà lo stesso accento eracliteo quando affermerà: “Noi non siamo altro che gorghi in un fiume d’acqua che scorre senza sosta. Noi non siamo materia che rimane, ma strutture che si perpetuano”. Non è più possibile dunque essere certi della forma. La forma è superata in favore del legame. Ed il legame stesso si confonde con altri legami, con vari livelli di legami. Perché una rete appartiene sempre ad un’altra rete, e tutti i sistemi appaiono integrabili gli uni agli altri. 

E’ in questo senso che si può dire che le immagini di ibridazione tra uomo e macchina, e tra uomo e natura, caratterizzino l’immaginario del presente. L’analisi di El Lisitskij - che non conosceva ancora mezzi di circolazione potenti come gli aeroplani a reazione, lo Shuttle, il fax, Internet, la Realtà virtuale e (forse un domani) la tv interattiva - trova conferma proprio in queste esperienze (recenti e meno recenti).

Vi sono attualmente varie ipotesi artistiche che si basano sull’idea della rete. Una, naturalmente, è l’arte telematica in cui l’artista innesca dei processi di comunicazione più che creare degli oggetti stabili[11]. Ma un’altra è anche tutta quell’arte che si incentra sul problema della mutazione o della trasformazione proponendo immagini ibride o larvali. Basti pensare a Dal tramonto all’alba di Quentin Tarantino in cui i personaggi di un chiassoso pub western si trasformano, grazie alle tecniche di trattamento digitale dell’immagine, in una folla di vampiri[12].

L’idea del flusso si può ritrovare nella multimedialità e nella compresenza di linguaggi di Prospero’s Book di Greenaway. E la stessa ripartizione “a finestre” dello schermo si ritrova nei dipinti di un David Salle.

Nel passaggio simbolico dalla “macchina” alla “rete” anche la creatività artistica è dunque strettamente coinvolta. La produzione di oggetti stabili e sicuri è, almeno nelle ricerche più aggiornate, ormai abbandonata e l’artista tende semmai a stabilire delle interconnessioni, a innescare dei processi. Arte telematica, Graffiti, video-art e Post-human riflettono questo cambiamento epocale senza rompere con la “tradizione del nuovo”, ma cogliendo un aspetto fondamentale della nostra contemporaneità. In queste espressioni dell’immaginario attuale le figure della relazionarietà, del proteismo e del flusso continuo si producono però, bisogna dirlo, con registri ed obbiettivi diversi a seconda della particolare poetica di gruppo o d’artista. CosÏ alcuni si limiteranno a rendere un superficiale “omaggio ai tempi” a puro livello tematico, rappresentativo, mentre altri utilizzeranno le nuove figure dell’immaginario integrandole completamente nel proprio modus operandi, nel meccanismo stesso di produzione dell’evento. Sono questi ultimi che ci devono interessare.



[1]) Cfr. Odo Marquard, Estetica e anestetica, ed. ital. Bologna, Il Mulino, 1994 e Renato Barilli, L'alba del contemporaneo, Milano, Feltrinelli, 1996.

[2]) M. Baxandall, Patterns of intentions, New Haven, London 1988.

[3]) Ci riferiamo qui al saggio  di Thierry De Duve, Au nom de l'art, Les …ditions de Minuit, Paris, 1989.

[4]) Sulla distinzione tra "genesi" e "uso" in Estetica si veda Luciano Nanni,  Adest opus: contra dogmaticus in "Studi di Estetica", XIII, 7, Mucchi, Modena, 1995.

[5]) Germano Celant, Il giardino della Moda e delle Arti: la Biennale di Firenze in Cat. "Biennale di Firenze. Il Tempo e la Moda", Milano, Skira, 1996, p. 14.

[6]) Si vedano soprattutto Mode & Modi, Milano, Mazzotta, 1979 e La moda della moda, Costa & Nolan, Genova, 1984.

[7]) In El Lisitskij. Pittore, architetto, tipografo fotografo, a cura di Sophie Lisitskij-K¸ppens, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 321.

[8]) G. Deleuze, F. Guattari, L’Anti-ådipe, ed. it. “L’anti-Edipo”, Einaudi, Torino, 1975.

[9]) Cfr. F. Capra, the web of life, ed. it. “La rete della vita”, Rizzoli, Milano, 1997.

[10]) R. Berger, TÈlÈovision. Le nouveau Golem, ed. it. “Il nuovo Golem”, Cortina, Milano, 1992.

[11]) Si veda ad esempio l’opera di Antoni Muntadas presentata a Documenta X, On Translation. Un testo passa da un E-mail all’altro e viene tradotto ogni volta in una lingua diversa. FinchÈ, naturalmente, non perde completamente il significato di partenza.

[12]) Ma anche gli scultori inglesi Dinos & Jake Chapman sono in questo senso esemplari. E le loro fusioni di individui e di membra sembrano indicare proprio una perdita totale di valore identitario mentre un’importanza sempre maggiore viene accordata alla funzione sociale.