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Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete

 

di A. Di Corinto e T.Tozzi

 

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2.3.3.Resistere al Digital Divide

 

Peekabooty

Così, mentre in questi paesi si aspettano i caschi blu digitali dell’Onu, gli hacker di molti paesi si sono organizzati per superare le barriere all’informazione che quegli stati hanno eretto intorno ai loro cittadini.

Ha fatto rumore infatti l’iniziativa del gruppo del Culto della Vacca Morta – www.cultdeadcow.org – che, dopo essersi scontrato con la comunità cibernetica internazionale per la diffusione di backorifice – un software ‘cavallo di Troia’ che si installa nel pc all’insaputa del suo possessore e che permette a uno sconoscuito di comandarlo a distanza via rete –, invocando il rispetto dell’articolo 19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, quello sulla libertà di informazione e di espressione, ha dichiarato di aver quasi completato la scrittura di un software che permette a chiunque di pubblicare le proprie informazioni sul web aggirando i controlli messi in atto dalle polizie sui server nazionali e presso i provider che forniscono l’accesso Internet al grande pubblico.

Il software si chiama Peeakabooty 28 e, nel preannunciarne la diffusione, il gruppo ha redatto un proprio manifesto dell’Hacktivismo.

Hacktivismo è la versione spagnoleggiante del termine Hacktivism, neologismo usato dagli attivisti digitali del Culto della Vacca Morta proprio per indicare quella attitudine a fondere la loro pratica di hacker con l’intervento diretto in una situazione di disparità. Esempio assai concreto di una cultura hacker che considera la libera diffusione di informazioni un diritto umano fondamentale, da garantire con ogni mezzo affinché ciascuno possa partecipare al discorso pubblico e intervenire attivamente su scelte che riguardano tutti. E poiché, secondo il Culto, l’Hacking è uno sport da contatto, nel senso che esso permette di stare in contatto con milioni di persone, chi pensa di poter disconnettere tanti milioni di individui come in Cina e di usare internet solo per gli affari di qualche lobby economica, si sbaglia.

Ed è difficile dargli torto se si pensa che la libertà di espressione non è solo libertà di parola, perché l’accesso alle tecnologie di comunicazione si intreccia con le questioni dell’economia e della democrazia. È in questa dialettica che si inserisce l’attitudine hacker alla costruzione di strumenti per soddisfare i bisogni concreti delle persone.

 

Cybersyn II

Gli hacktivisti del centro sociale occupato Forte Prenestino di Roma, nel dicembre 2000, hanno presentato e discusso il progetto Cybersyn II, una piattaforma tecnologica per la cooperazione telematica nel nuovo millennio.

La piattaforma, realizzata dal gruppo AvANa.net, è nata per facilitare la diffusione di strumenti per l’autorganizzazione della galassia del lavoro immateriale – ovvero dei soggetti che si confrontano con le trasformazioni del lavoro, del mercato e della comunicazione indotte dalla rivoluzione digitale – e costituisce il contenitore di tre progetti strettamente interrelati.

Il primo è FORTHnet. Il progetto Forthnet è finalizzato a fornire al centro sociale una infrastruttura di rete, una Lan, e la connettività verso Internet. L’ infrastruttura è pensata per favorire gli scambi e la cooperazione avanzata fra tutti i dodici laboratori del centro (grafica, fotografia, comunicazione, cinema, etc.), che si estende su di un’area di tredici ettari, e tra questi e il mondo fluido dei movimenti sociali. Il progetto prevede l’accesso libero e gratuito per chiunque a postazioni pubbliche di accesso alla rete, funzionanti con software libero all’interno dello stesso Forte Prenestino.

Il secondo progetto è Bwn, un acronimo che sta per «BrainWorkers’ Network». Bwn è una piattaforma informatica di sostegno al lavoro immateriale, anch’essa rigorosamente non proprietaria, ed è strutturata come un sistema avanzato di Knowledge Management per condividere idee, metodi di lavoro, risorse, problemi e soluzioni. La piattaforma, realizzata secondo lo standard httpd, è pensata per essere facilmente accessibile secondo la modalità ipertestuale tipica dell’interazione via world wide web.

Il terzo progetto, l’Osservatorio dei Diritti della Comunicazione Telematica, è invece un servizio di informazione e consulenza telematica online sul diritto alla comunicazione. L’osservatorio mira a fornire gli strumenti informativi per superare gli impedimenti alla libera comunicazione cosituiti dal carattere fortemente restrittivo della attuale legislazione sulla comunicazione in rete. Attraverso una informazione precisa e tempestiva sui diritti di chi usa la telematica multimediale per comunicare, divertirsi e lavorare, l’Osservatorio, coadiuvato da avvocati e giuristi, è stato uno strumento per la difesa attiva contro la censura di governi e istituzioni incapaci di comprendere e valorizzare la libera comunicazione attraverso la rete.

Il progetto, nel suo complesso, mira quindi a creare le condizioni di una effettiva autonomizzazione dei lavoratori della conoscenza attraverso l’uso libero e gratuito degli strumenti per comunicare. Sono quindi almeno due i caratteri innovativi di questa sperimentazione.

Portare gli strumenti della libera comunicazione in un luogo che è già un crocevia di attraversamenti e di relazioni come un centro sociale, implica già una critica alla costruzione di cattedrali nel deserto lontane dai passaggi metropolitani come i centri di telelavoro a pagamento che mettono a disposizione sistemi di comunicazione costosi e difficili.

Inoltre è un’iniziativa autonoma, che nasce dal mondo dell’attivismo telematico, ed è volta a favorire l’autorganizzazione di tutti quei soggetti che, espulsi dai meccanismi produttivi e tenuti in scacco dal ricatto della ricerca di un salario, non possono esercitare pienamente le loro facoltà creative nella produzione di attività che, piuttosto che configurarsi come lavoro, si presentano come opera: libera, per tutti e senza l’assillo del profitto.

D’altra parte un progetto come cybersyn rappresenta in potenza una modalità di distribuzione della ricchezza prodotta dall’informazione sociale. Accesso libero e gratuito alla rete, software libero, banche dati senza copyright, rete di consulenze, informazioni in tempo reale da parte di gente «vera». Una ricchezza che può essere usata per informarsi, studiare e guadagnare e che quindi genera un reddito indiretto garantendo l’accesso a servizi di comunicazione ma in un’ottica indubbiamente libera e cooperativa. Tutto il progetto muove da una forte critica all’attuale sistema di accesso, utilizzo e regolamentazione della comunicazione telematica e, ponendo l’accento sulle potenzialità della comunicazione orizzontale consentita dalla rete, propone una concezione diversa del diritto a cooperare comunicando.

Non si tratta però di un percorso univoco e determinato una volta per tutte; al contrario, la sua articolazione ha volutamente le caratteristiche di una programmazione aperta, proprio per favorire le interrelazioni con altre iniziative che con esso viaggiano parallele.

Il progetto è importante proprio perché il suo background, risultato di una lunga riflessione sul modo in cui mutano il lavoro, i diritti e lo stesso concetto di organizzazione sociale e politica nell’era della comunicazione digitale, è rappresentato dalla consapevolezza che lalibertà di comunicare è non solo e non tanto libertà di parola, ma premessa alla produzione autonoma di reddito e prospettiva di autogoverno.

Se è vero che oggi l’inclusione sociale passa attraverso l’opportunità di conoscere e imparare e che le barriere alla comunicazione elettronica hanno approfondito il divario sociale fra gli «haves» e gli «havenots» dell’informazione, e se è vero che oggi è la nostra stessa attività relazionale e ludica, fatta di creazioni simboliche e attività ideative, ad essere messa immediatemente a profitto dall’industria delle merci, si pone la questione dei gradi di libertà possibili all’interno di questo sistema.

Inoltre, se sono le generiche facoltà umane ad esser messe a profitto dall’industria linguistica, c’è da chiedersi cosa rimane all’attività socializzante, gratuita e desiderante del comunicare.

Il lavoro nell’industria culturale è solo l’aspetto più evidente del modo in cui le capacità umane di creare e comunicare sono inglobate nella produzione di merci. Come accade nel caso della fabbrica virtuale, dell’impresa a rete, di tutto il lavoro autonomo, dove è la stessa capacità del lavoratore di autorganizzarsi, di cooperare con altri, di progettare e gestire tempo e spazi del proprio agire produttivo che crea i presupposti della moderna produzione e circolazione delle merci. Un’attività che si esplica innanzitutto attraverso la comunicazione, telegrafica, a distanza, in tempo reale, potenziata dai nuovi mezzi di comunicazione come Internet. Ma che va venduta per produrre valore economico.

Un’attività che è espropriata al lavoratore simbolico dai flussi di valorizzazione di un capitale ancora saldamente in mano ai capitani d’industria e alla finanza internazionale che, sebbene sproloquino sulla retorica liberista dell’autorganizzazione e della flessibilità come occasioni di liberazione del lavoratore, allo stesso tempo ne impediscono la effettiva autonomizzazione dalle prescrizioni gerarchiche e dal lavoro inutile.

Perciò usare gratuitamente un computer collegato alla rete, poter usare un software che non sia a pagamento, ottenere consulenze in un ambiente creato per progettare insieme, rappresenta una possibilità in più per chi non si rassegna a vendere la propria creatività.

Cybersyn II in questo senso è un’operazione di hacking, di produzione di scenari di senso alternativi attraverso l’assemblaggio di strumenti che accrescono i gradi di libertà e di scelta all’interno di un sistema dato.

 

I Media Indipendenti

Gli ultimi anni hanno visto il diffondersi dei Media Indipendenti attraverso la rete in un processo che difficilmente può essere considerato temporaneo.

«Tu sei il media, la tua testa è la redazione, il tuo pc la sede», lo slogan che si legge nella firma digitale di un attivista di Indymedia sintetizza così il futuro dei media indipendenti. E ci dice che una nuova generazione di attivisti ha compreso che tutti possono fare informazione senza doverla delegare ad altri, attingendo alla propria rete di relazioni e a patto di disporre di un computer su cui mettere le mani. Utopico? No, se consideriamo lo scenario in cui i media indipendenti crescono.

Da una parte c’è la forte diffusione di tecnologie di comunicazione «personali». Telecamere, cellulari, computer e macchine fotografiche, utilizzate all’interno dei cortei, delle manifestazioni politiche e delle iniziative culturali consentono a ciascuno di raccontare da un punto di vista interno gli eventi di cui è protagonista, e quindi di riappropriarsi della comunicazione che i gruppi sociali concretamente producono.

Dall’altra parte, la convergenza multimediale dei contenuti della comunicazione, che una volta digitalizzati possono essere riuniti dentro la scatola del computer, stare in una pagina web ed essere diffusi con la posta elettronica, ha fatto sì che essi possano convergere nella rete Internet e interagire con altre reti, tecniche, linguistiche e relazionali, ed essere poi ripresi da mezzi più tradizionali come radio, quotidiani, televisioni e di lì ritornare alla Rete.

Una situazione favorita dall’adozione di piattaforme di open publishing delle informazioni, dalla diffusione di tecnologie peer to peer e di software libero e gratuito, e dal carattere pubblico, universale e trasparente di Internet, che la rendono difficilmente monopolizzabile dal potere politico ed economico.

Ma questo scenario è incompleto se non si considera che alla base della diffusione dei media indipendenti c’è una cultura che considera il confronto, la condivisione e il rispetto reciproco gli elementi necessari della democrazia che si basa sulla comunicazione.

In questo senso la convergenza delle attività di informazione dei video attivisti, degli hacker sociali e delle radio comunitarie in network ampi e delocalizzati, secondo un modello senza vertici né gerarchie, è stata favorita dalla creazione di comunità basate su vincoli di fiducia, appartenenza e reciprocità. Ma è soprattutto il comune riconoscimento dell’importanza dell’informazione come elemento di una comunicazione che costruisce scenari di senso e contesti di azione in una società dove essa si intreccia sempre più con le forme dell’economia e della democrazia che ha determinato il passaggio dalla «comunicazione della politica» alla «politica della comunicazione».

Il Belpaese è stato la culla delle radio libere degli anni 70, ha conosciuto l’esplosione delle fanzine autoprodotte e delle case editrici indipendenti, e ha importato con successo la cultura dei Bulletin Board Systems e delle freenet americane. Ma è anche il territorio dei centri sociali autogestiti, luoghi di contaminazione delle identità, spazi di produzione di soggettività politica, di culture e stili di vita con una naturale vocazione alla comunicazione fatta di concerti, mostre, dibattiti e rassegne teatrali, riviste e libri autoprodotti, che li configura come luoghi mediali per eccellenza. www.ecn.org

Non è un caso che la diffusione dei new media sia stata spesso contigua ad essi perché non sono solo l’attitudine punk alla sperimentazione e il carattere comunitario di queste esperienze che hanno creato i luoghi della formazione all’uso diffuso di tecnologie un tempo chiuse nelle università, ma l’attitudine dei singoli a comunicare senza la quale l’accesso alle tecnologie telematiche è inutile.

L’informazione libera e alternativa veicolata dalle reti telematiche è essenziale per costruire dal basso l’agenda politica dei movimenti e per organizzare lotte e mobilitazioni fisicamente presente. Lotte che si sono date forme molteplici: dal monitor coi volantini diffusi in rete e attaccati nei mercati (www.print.indymedia.org), ai videowalls nelle piazze (www.strano.net), ai cortei in bici dei mediattivisti (www.makaja.org), alle web-radio ritramesse nell’etere (www.radiogap.net).

Per capire la forza dell’informazione indipendente forse non è necessario rifarsi all’etica hacker, ma la logica del decentramento e dell’assenza di gerarchie, la convinzione che l’informazione distribuita in maniera veloce e capillare migliora il mondo, sono di certo ottimi antidoti a un immaginario preconfezionato dalla pubblicità e dalla televisione.

Come dimostra il caso dell’Indipendent People Against Media Hipocrisy, una bussola nel mare dell’informazione indipendente www.informationguerrilla.org.

Si sbaglia però chi considera la produzione di informazione alternativa sufficiente a modificare gli effetti del mediascape sulla società e non solo perché i mass media raggiungono un pubblico incomparabile con quello dei media alternativi, ma perché più che le notizie dei telegiornali sono i nani e le ballerine che determinano l’immaginario e influenzano i comportamenti.

E la produzione di immaginario, quella strana bestia che presiede alla formazione di contenuti e di relazioni attraverso associazioni regolate dalla logica dell’emozione e del desiderio, è l’obiettivo dei videoattivisti di Candida Tv che fanno dell’ironia, del plagio,  dell’immediatezza delle immagini, la forza della loro «televisione fatta in casa». http://candida.kyuzz.org

E poiché sono le immagini e la testimonianza diretta che parla con la forza e l’intensità delle emozioni vissute a scuotere gli spettatori, Indymedia usa proprio i linguaggi della multimedialità per la sua informazione www.italy.indymedia.org

La forza della comunicazione indipendente ha creato un immaginario che dice «si può fare», proponendo stili di vita estranei alla passività e al conformismo della pubblicità e dell’industria dell’infotainment attraverso una produzione di significati autonoma che dimostra che non è necessario usare i codici dell’informazione paludata per essere autorevoli, e che il diario di viaggio di un media-attivista in Palestina può essere più importante della velina d’agenzia a titoli cubitali. www.tmcrew.org

Forse anche per questo siamo passati dalla guerra dell’informazione per accapparrarsi fette di audience, alla «guerra all’informazione» libera e plurale; nell’agenda dei media indipendenti c’è oggi una battaglia di civiltà per il diritto a comunicare attraverso la diffusione dell’informazione autogestita: con le radio a bassa fequenza, le trasmissioni televisive via Internet, l’accesso gratuito alla banda, la soppressione del copyright e la diffusione di software libero e per la riconquista dell’etere. www.altremappe.org

 

Indymedia

News doesn’t just happen; it is made to happen. News, in other words, is managed and manipulated. And if we don’t manage it, someone else will. (urban75)

 

Indymedia è un network internazionale di media attivisti, giornalisti, videomaker, fotografi, web designer, sistemisti, linuxisti, hacker sensibili ai temi dell’informazione libera, «dal basso», indipendente, autogestita. Media attivisti che producono informazione indipendente e la condividono usando una piattaforma tecnologica realizzata con software libero. Il software su cui la piattaforma si basa è stato creato da sviluppatori austrialiani e perfezionato da programmatori americani ed europei, e consente la pubblicazione real-time su web di materiali testuali e audiovisivi. Ottimo esempio di un software di publishing on-line prodotto proprio da quella cultura hacker che costruisce strumenti per soddisfare i bisogni concreti delle persone: i computers come mezzi di socializzazione dell’informazione.

La tecnologia usata non è nuova, ma si tratta di software sotto licenza Gnu-Gpl, cioè software libero, non proprietario e quindi modificabile da chiunque, che si può scaricare da www.cat.org/au

 

Indymedia deve la sua forza mediatica ad una piattaforma web flessibile e user-friendly, ad un database completamente automatizzato, a potenti server per lo streming audio-video, ad un flusso di news sempre aggiornato. Chiunque può caricare ed editare registrazioni audio e video, immagini, articoli, news, comunicati. La redazione non ha bisogno di essere centralizzata, può costituirsi lì dove l’evento accade e organizzarsi in network attraverso email e canali Irc.

 

Infatti le caratteristiche di apertura della piattaforma sono state scelte affinché chiunque abbia un computer collegato a internet possa pubblicare in tempo reale audio, video e testi. Obiettivo? Sottrarre il monopolio dell’informazione ai media verticali (radio, televisioni e quotidiani) al grido di don’t hate the media, become the media!

Una delle caratteristiche dei contenuti veicolati attraverso la rete è che possono essere fruiti in maniera indipendente dal mezzo, dal luogo, dall’ora in cui vengono richiesti. La possibilità di ascoltare la radio o di vedere un telegiornale registrato su Internet ha contribuito ad influenzare le modalità del consumo di informazione liberandola dai tempi serrati dei palinsesti televisivi e dagli spazi angusti delle colonne dei quotidiani. Inoltre oggi tutti possono realizzare il proprio sito web, inviare Sms da un cellulare a un computer e viceversa o spedire foto e filmati via internet.

Ed è proprio il carattere ipermediale, interattivo e aperto della rete che ha persuaso le persone che possono fare informazione da sole senza doverla delegare ad altri.

Indymedia nasce a Seattle il 30 novembre 1999 con l’obiettivo di fare informazione indipendente sugli eventi connessi al summit del Wto che «rischiavano di essere omessi o distorti dai media mainstream». Oggi è una solida realtà informativa sulla rete ed è la dimostrazione di come è possibile creare un mass-medium autogestito, senza scopo di lucro e indipendente dai media istituzionali e commerciali.

Usando il linguaggio delle immagini in movimento, cioè lo streaming video, sulla scia della rivoluzione in corso nella rete – le tecnologie peer-to-peer, il file sharing, napster – ha permesso da allora la pubblicazione e la condivisione di ogni tipo di informazione, senza alcuna modifica dei materiali inviati, e con l’impossibilità di eliminarli dal server basato in Colorado.

La sua sezione italiana è nata nel giugno 2000, a Bologna, durante i giorni di protesta contro il meeting dell’Ocse e ha giocato un ruolo decisivo nella produzione di informazione prima, durante e dopo il controsummit di Genova. www.italia.indymedia.org

Lì gli attivisti si sono ritrovati a lavorare insieme alla copertura mediatica della contestazione al G8 e a discutere del diritto alla produzione di informazione organizzando anche seminari tecnici pubblici. Usando lo streaming video e diffondendo notiziari attraverso la web-radio, Indymedia ha documentato live, minuto per minuto, quello che accadeva nelle piazze di Genova: gli scontri, le violenze ma anche i cortei festosi dei convenuti all’incontro dei G8. Oltre a tutto ciò gli attivisti hanno realizzato anche un sistema di pubblicazione delle notizie da Sms, che permetteva di commentare le notizie trasmesse e i materiali pubblicati usando il proprio cellulare. Un vero esempio di convergenza digitale.

Il simulacro che ha raccolto attorno a sé tutti i registi, i webmaster, i giornalisti è stato perciò il sito di Indymedia – www.italy.indymedia.org – che è rimasto per tutto il «dopo Genova» il luogo delle notizie di prima mano per conoscere il numero dei dispersi, degli arrestati, dei denunciati.

 

Reti Civiche

Un modo peculiare in cui le culture hacktivist hanno provato ad affrontare il tema delle ineguaglianze digitali è la costruzione di reti civiche 29. Dai primi esperimenti delle Freenet americane (vedi paragrafo Freenet e Reti Civiche), la vicenda si è dispiegata attraverso una storia complessa che ha conosciuto esiti differenti in relazione alla maturazione delle tecnologie e ai mutamenti degli scenari antropologici e politici conseguenti.

 

A cosa serve una rc per gli hacktivisti?

Ma andiamo con ordine.

Il dibattito sui new media e sulla pervasività della rete Internet ha spesso concentrato su di sé l’attenzione di quanti auspicano un allargamento delle forme della partecipazione alla vita sociale e politica attraverso le nuove tecnologie di comunicazione. È certamente vero che le forme della partecipazione, e quindi della democrazia, si sono storicamente intrecciate con l’evoluzione delle tecnologie della comunicazione, è però opinabile l’equazione per cui all’introduzione di una nuova tecnologia corrisponde un ampliamento della partecipazione alla vita sociale e politica. Anzi ogni volta che un nuovo medium è stato introdotto, esso ha suscitato speranze di allargamento della democrazia 30.

Nella prima metà del 900, le tecnologie rivoluzionarie per la vita democratica sono state la radio, il telefono, la televisione.

Ma presto abbiamo appreso che queste tecnologie da sole non garantivano una maggiore democrazia. Noti studiosi hanno individuato una relazione fra lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione di massa e l’avvento dei totalitarismi, e l’attuale dibattito italiano sulla par-condicio e il conflitto d’interessi chiarisce i rischi che presenta l’appropriazione integrale dello spazio televisivo da parte dei professionisti della politica.

Altri sostengono invece che l’elemento alchemico dell’interrelazione fra l’uso delle tecnologie di comunicazione e le forme della democrazia è la cultura d’uso delle tecnologie, in quanto esse sfuggono ad una totale determinazione e possono trasformarsi in strumenti di emancipazione.

Secondo un approccio deterministico, al contrario, sono le caratteristiche intrinseche del medium a decretare la sua forma d’uso. Winograd e Flores (1994), ad esempio, sostengono che «costruendo strumenti, costruiamo modi di essere delle persone», mentre i sostenitori di un approccio dialettico sostengono che «il senso di una tecnica o di un oggetto sta, in ultima istanza, nelle interpretazioni contraddittorie e contingenti che ne danno gli attori sociali». (Pierre Levy 1992).

La reinterpretazione sociale della tecnologia sembrerebbe facilitata da strumenti multimediali e flessibili, come quelli che convergono nello strumento di comunicazione per eccellenza, la rete Internet, su cui oggi si basano le reti civiche, e dal fatto che l’uso di questa tecnologia diventa progressivamente accessibile a molti. Sarebbe quindi il carattere aperto, orizzontale, della tecnologia e dei flussi comunicativi, su cui Internet si sviluppa, a spingere nella direzione di una maggiore democrazia.

Ma c’è da chiedersi se questa visione non sia ottimistica e se l’uso di questi strumenti, anziché promuovere una cultura della partecipazione, incoraggi piuttosto la passività e la delega.

 

Reti e Partecipazione: Due accezioni di partecipazione politica

In questa cornice si sono sviluppate due concezioni estreme e antitetiche della partecipazione politica fondata sulla telematica territoriale e comunitaria. A un estremo si situano coloro che vedono nella rete la possibilità di una autorappresentazione delle istanze dei cittadini realizzabile senza mediazioni attraverso forme di discussione e di voto elettronico. Questa linea auspica la scomparsa dei mediatori politici di professione, salvo mantenere una casta di burocrati incaricati di far rispettare quelle decisioni «popolari» plebiscitarie, per realizzare una democrazia elettronica diretta. È la concezione tecnolibertaria, individualista e utopica di molti gruppi di pressione e di comunità virtuali, spesso già politicizzate, di più lunga data.

All’altro estremo abbiamo invece una concezione che pensa la rete come un correttivo della politica tradizionale. La rete è in questo caso vista come un mezzo in grado di arrestare la tendenza centrifuga dei cittadini rispetto ai meccanismi di legittimazione del potere politico, come strumento adatto a conferire loro una nuova delega di rappresentanza.

Quindi in un caso si mira ad annullare la sfera del politico tradizionalmente inteso, nell’altro si vuole conservare, ridefinendolo, il primato del politico utilizzando i nuovi strumenti di comunicazione.

Rispetto a queste due impostazioni è però possibile considerare una serie di varianti che favoriscono una pratica di democrazia continua e perennemente costituente fondata sulla partecipazione informata, attiva e razionale dei cittadini. Una democrazia che individua nella informazione trasparente, aggiornata, di qualità, e nella garanzia di accedere ad essa, le fondamenta di un dialogo partecipativo e della verifica critica delle istanze avanzate dai cittadini. Una politica della partecipazione che individua come suo orizzonte l’esercizio della cittadinanza, piuttosto che il suo governo rappresentativo.

È plausibile pensare che le reti civiche servano a costruire e popolare una nuova sfera pubblica dove cittadini e istituzioni cooperano a migliorare la qualità della vita, a sviluppare una maggiore coesione sociale, a facilitare i processi di integrazione sociale, a mobilitare competenze diffuse e a favorire la crescita economica e culturale del territorio, rinnovando il senso civico della comunità di appartenenza. Questo a patto che sia garantita la progettazione collegiale e l’accesso agli strumenti per garantire il coinvolgimento dei cittadini; altrimenti la sola esistenza dell’infrastruttura di comunicazione costituita dalla rete civica si rivela inutile.

Il carattere partecipativo di una rete civica dovrebbe presupporre che, indipendentemente da chi la promuove, tutti i soggetti che la animano sono ugualmente legittimati ad accedere ai suoi servizi ed a proporne di propri. Qualsiasi forma di partecipazione presuppone l’informazione e la conoscenza della realtà cui si partecipa, sia essa una mera discussione o una deliberazione. Il modo in cui si sviluppa il flusso della comunicazione, dall’acquisizione dei dati fino alla loro trasformazione in conoscenza condivisa, è quindi questione centrale rispetto al tema della partecipazione.

Le Reti Civiche che utilizzano Internet come strumento di partecipazione scontano spesso i limiti di uno sviluppo istituzionale che è pilotato da una concezione strumentale della politica e della partecipazione. In molti casi, infatti, la partecipazione attraverso gli esperimenti di democrazia elettronica delle Rc è stata concepita come correttivo della politica tradizionale se non usata come uno strumento di propaganda politica ed elettorale tout court.

Secondo questa concezione strumentale, la rete serve a garantire una più ampia base partecipativa ai meccanismi di delega e di rappresentanza, utilizzando la comunicazione politica «in tempo reale», broadcast e monodirezionale.

Oppure essa utilizza una comunicazione «mirata», tradizionale dal punto di vista politico, attraverso cui il governo locale promuove se stesso e rileva gli umori del suo target. È la democrazia dei sondaggi che punta ad omogeneizzare e governare, attraverso una selezione mirata dei contenuti, i comportamenti dell’elettorato. È la democrazia dell’Agenda Politica che fissa i temi della discussione, ovvero sottopone al pubblico la scelta fra alternative già date. Ed è la democrazia del referendum elettronico.

Una concezione leggermente diversa è quella per cui la politica cerca consenso intorno al programma e all’attività di governo, dialogando con i cittadini, valutandone il feedback, e procedendo agli aggiustamenti che si rendono necessari. È la democrazia del consenso informato (secondo il modello della consensus conference).

Ma qualsiasi fine perseguano, queste forme si situano sempre all’interno di una concezione della democrazia rappresentativa in cui partiti e istituzioni svolgono un ruolo centrale di mediazione dei contenuti e delle forme della partecipazione. E questo è già un elemento che depotenzia le modalità reali della partecipazione. Per molti motivi, primo fra tutti la scarsa fiducia nei confronti della politica stessa.

Insomma, se è difficile dire come si realizzi la partecipazione sappiamo cosa non è partecipazione.

Partecipazione non è la possibilità di scegliere fra alternative date e immutabili. Il referendum elettronico non è democrazia.

Partecipazione non è la costruzione verticale dell’agenda politica, ovvero degli argomenti da porre all’attenzione dei cittadini.

Partecipazione non è la limitazione dei contenuti, degli strumenti e dei linguaggi utilizzabili.

 

Partecipazione come autogoverno

Se ci chiediamo come la comunicazione elettronica veicolata dalle reti telematiche possa migliorare e far crescere la politica territoriale, dentro e fuori i parlamenti locali, dobbiamo porci anche il problema di come l’agire comunicativo possa influenzare la sfera del politico.

Non si tratta di applicare un artificio tecnico alla sfera sociale. Il cambiamento introdotto dai nuovi media non è tanto quantitativo, ma qualitativo. Dovrebbe essere utilizzato per ricondurre la sfera del politico alla sua giusta dimensione. Si tratta in definitiva di costruire e usare strumenti attraverso i quali si possa ricostituire l’identità del cittadino decisore attivo e competente all’interno della comunità.

La domanda finale che ci si pone è se, in assenza di un adeguato equilibrio fra la partecipazione come rappresentanza e la partecipazione come decisionalità condivisa, la telematica come strumento di comunicazione/informazione ricollochi effettivamente i poteri oppure se si tratti di una farsa destinata a produrre disillusione.

 

È comunitaria, insomma, la città i cui molti cittadini partecipano liberamente non solo alle decisioni istituzionali della vita pubblica, politica, amministrativa ma fanno sentire la loro voce, anche vivacemente, attraverso associazioni, gruppi volontari e interfamiliari, sia nelle relazioni con i servizi pubblici, sanitari, sociali, civici, sia per la difesa dei consumatori sui mercati (A. Ardigò, ’95).

 

Da una sommaria ricognizione delle differenti esperienze territoriali di telematica civica si evidenziano numerose varianti nella costituzione delle reti civiche italiane. Ciascuna sembra concentrarsi su un aspetto particolare degli usi possibili della rete e questo atteggiamento, anche se occasionalmente riesca a promuovere la concreta funzionalità dello «strumento» rispetto ad un obiettivo particolare (interfaccia fra cittadini e amministrazione o infrastruttura di servizio alle imprese), spesso oscura le implicazioni realmente innovative cui la telematica può dar luogo, e innanzitutto la possibilità di un reale autogoverno della polis da parte dei cittadini.

Probabilmente non esiste una formula esaustiva circa la forma e i contenuti che una rete civica può assumere, ma riteniamo che alcuni aspetti specifici del suo utilizzo vadano comunque considerati e valorizzati.

Nel caso della realizzazione della rete civica romana www.romanet.it , punti di forza sono stati la continua tensione verso la collegialità delle decisioni relative al funzionamento tecnico della rete stessa, la scelta di utilizzare una tecnologia mista Fidonet/Internet che la rende accessibile sia dal lato Bbs che dal lato Internet, la possibilità di usare programmi di crittazione per la posta privata e l’uso degli alias. Questi i punti maggiormente qualificanti di un esperimento di «Democrazia Elettronica» come quello rappresentato dal Romanet.

Possiamo riassumere così i nodi di sviluppo delle Irc:

1) Sfera pubblica autonoma: di «visione», ascolto, decisione, verifica.

a) luogo sperimentale di partecipazione ai processi decisionali dell’amministrazione pubblica, dove la circolarità e la sistematicità nei flussi informativi, nella adozione di decisioni e nella verifica progettuale e attuativa, possano prefigurare la creazione di una tavola rotonda elettronica permanente fra i cittadini e l’amministrazione;

b) rete di comunicazione molecolare fondata sulle pratiche positive, le risorse di collettivi e gruppi di interesse eterogenei e dispersi in grado di seguire i problemi emergenti come pure i progetti, i saperi e le idee in una trama autopoietica di percorsi collaborativi in cui la partecipazione del cittadino sia considerata non solo come diritto di quest’ultimo ma come una risorsa competente e gratuita, secondo criteri di trasparenza, reciprocità, condivisione, controllo diffuso

2) Infrastruttura di supporto al lavoro immateriale, al lavoro mobile ed al telelavoro.

Cioè infrastruttura di sostegno alla nebulosa del lavoro «immateriale» che già usa gli strumenti della telematica multimediale per lavorare, con apertura di aree di dibattito pubblico sui diritti legati ai nuovi lavori, insieme ad aree di consulenza (finanziamenti e know-how) e di supporto legale.

Una infrastruttura in grado di supportare tutte quelle realtà lavorative (impresa a rete, impresa a nube, autoimpresa, area delle consulenze continuative e saltuarie in forma autonoma o associata) che sono il frutto amaro della esternalizzazione delle competenze aziendali e della disoccupazione strutturale, e che, attualmente, si trovano ad agire in un mercato in cui gli strumenti e le infrastrutture della telecomunicazione costituiscono una risorsa produttiva fondamentale di cui però non sono garantite né l’accessibilità né l’efficienza (costi eccessivi, tempi lunghi di connessione, malfuzionamenti); ciò a causa dell’obsolescenza dei servizi e degli strumenti, dovuta al ritardo nella ristrutturazione dei servizi stessi e alle posizioni dominanti o di monopolio nella loro erogazione che rappresentano un pesante freno all’innovazione, secondo criteri di connettività universale, facilità di accesso, continuità del servizio, interoperabilità fra sistemi.

3) Infrastruttura di sostegno per le realtà associative di base.

Cioè infrastruttura di supporto per tutte quelle realtà che operano sul territorio, dal volontariato alle associazioni no-profit ai centri sociali, per contribuire a colmare il vuoto aperto dalla crisi del welfare nel corpo della società offrendo risposte rapide alla crescente domanda di gestione dal basso del territorio, desertificato dal ritrarsi dell’intervento statale.

Una infrastruttura in grado di consentire l’accesso alle informazioni relative ai finanziamenti destinati a questa peculiare tipologia di lavoro, che consenta la condivisione a cascata di strumenti e know-how per l’intervento sul territorio e i servizi alla persona secondo i criteri dello scambio di competenze, del decentramento decisionale e della riorganizzazione informatica dei servizi amministrativi.

4) Bibilioteca Pubblica.

La rete intesa come canale pubblico di accesso al sapere in tutte le sue forme, secondo un progetto di formazione permanente del cittadino-utente, che è produttore e consumatore nello stesso tempo, per rendere disponibili biblioteche pubbliche di dati (informazioni, testi, immagini), banche del software, risorse museali.

In tal modo la rete civica può diventare una risorsa in-formativa che consente ai lavoratori di acquisire, in forma gratuita o semi-gratuita, gli strumenti della formazione e della produzione, per confrontarsi efficacemente con un mercato caratterizzato dalla continua domanda di nuove merci e di nuovi servizi, e di un sapere flessibile in grado di innovare le proprie competenze in maniera sincronica rispetto alle richieste emergenti del mercato del lavoro. I criteri in questo caso sono la libertà di accesso ai saperi e agli strumenti, la costruzione di luoghi di scambio di conoscenze, di formazione e aggiornamento continui.

Una simile rete deve essere fondata sulla condivisione di metodi e obiettivi e, soprattutto, su un tessuto di rapporti umani continuamente alimentato dagli scambi veloci e capillari garantiti dalla rete stessa.

 

Conclusioni

Una rete di questo tipo è in grado di recepire le esigenze emergenti nel mondo del lavoro come quelle della socialità più ampia e di diventare un modello di sviluppo e un motore dell’innovazione. Ma gli interventi realizzabili attraverso la rete civica, inseriti all’interno di una più ampia idea di democrazia elettronica, devono prevedere il coinvolgimento diretto e diffuso dei cittadini attraverso la costituzione degli strumenti necessari ad assicurare una partecipazione diffusa ed egualitaria. Per questo è centrale perseguire tre obiettivi primari:

a) La diffusione degli strumenti dell’interazione ai quali deve essere garantito l’accesso pubblico, realizzando, nel medio periodo, posti pubblici per la comunicazione telematica con vere e proprie guide all’uso (elettroniche e non), e «laboratori di quartiere» dotati della relativa strumentazione infotelematica, mentre nell’immediato è possibile usufruire di strumenti già esistenti nelle scuole, nelle biblioteche, nell’Università, negli uffici Circoscrizionali;

b) La formazione: affinché i cittadini siano in grado di comunicare e di navigare fra le informazioni è necessario realizzare seminari di formazione che potrebbero prevedere un intervento misto di enti locali e soggetti del volontariato (ad esempio gli stessi SysOps della rete civica e i loro utenti esperti), con il patrocinio delle municipalità, utilizzando strumenti e luoghi per la formazione già esistenti oltre che scuole, università, centri sociali, anche attraverso l’impiego di metodologie e tecnologie di tipo teledidattico.

 

 

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