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Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete

 

di A. Di Corinto e T.Tozzi

 

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2.4.4.Cyberguerre?

 

«The foundations of daily life in Western society – banking, stock exchanges, transportation controls, utility grids and nuclear power stations – depend on a vast, networked information infrastructure. The potential for destabilizing a society through cyber attacks against banking or telecommunications systems becomes huge». (Anonimo)

 

Il disfacimento dei siti (defacements) di Rainews24 e delle Assicurazioni Generali, i presunti messaggi virali recapitati ai dipendenti del comune di Genova e le intrusioni nei siti delle camere di commercio e di alcuni ministeri, in occasione dell’incontro dei G8 nel luglio 2001, hanno fatto parlare dell’inizio di una cyberguerra da parte del cosiddetto «popolo di Seattle».

Ma la «guerriglia informatica» antiglobalizzazione è in atto già da tempo. Molte delle iniziative di protesta digitale, le azioni di guerriglia comunicativa descritte sopra sono state spesso orientate a rimettere in discussione e denunciare gli effetti del neoliberismo sulla società  e sull’ambiente.

Se prima della rivoluzione digitale la critica allo status quo era affidata a volantini, fanzine e comizi di piazza, oggi i comitati cittadini, i gruppi per la difesa dei diritti umani e dei consumatori usano Internet ed il web per veicolare le proprie ragioni e raggiungere una platea virtualmente illimitata. E l’uso creativo di Internet è diventato uno dei modi attraverso cui moderni attivisti della comunicazione sostengono le proteste di piazza e attaccano la propaganda delle multinazionali che utilizzano il web come vetrina delle proprie attività.

«[…] Oggi il maggior pericolo per la reputazione delle aziende viene da Internet, l’arma più innovativa a disposizione dei gruppi di pressione. L’uso che essi fanno di strumenti di comunicazione come Internet riduce il vantaggio che il budget aziendale prima garantiva». Questa citazione è di un esperto di public relations che cerca di insegnare alle multinazionali come contrastare l’uso creativo di internet da parte dei contestatori. www.n5m3.org

E, a ben vedere, ne hanno tutte le ragioni. I moderni contestatori usano sempre più di frequente Internet e il web per svelare il carattere ideologico e persuasivo della comunicazione istituzionale e d’impresa. Nelle forme più imprevedibili, come quella del plagio dei siti ufficiali di politici e di aziende multinazionali.

Queste pratiche di attivismo digitale però, non hanno niente a che vedere con le cyberguerre e non solo perché, a differenza delle guerre, non mirano a distruggere e conquistare, ma perché la «guerriglia comunicativa» degli hacktivisti mira a occupare solo temporaneamente degli spazi di comunicazione per parlare a una platea più vasta di quella degli altri cyberattivisti.

L’hacktivism in generale è cosa diversa dalle cyberguerre e dal «terrorismo informatico».

Anche se in una concezione assai ristretta l’hacktivism può essere inteso come l’uso di hacking skills (capacità da hacker) per sviluppare azioni di «guerriglia digitale», c’è una profonda differenza tra l’infowar (guerra dell’informazione) e le netwars (guerre su internet), fra le netwars e la cyberwar (guerra cibernetica). Vediamo perché.

L’infowar è una guerra di parole, una guerra combattuta a colpi di propaganda. L’infowar si ha quando gli attivisti politici oltre che ad usare strumenti tradizionali di comunicazione (volantini, affissioni, annunci sui giornali), si armano di computers e cominciano a usare la rete come mezzo per comunicare le proprie ragioni a un’audience globale, sfruttando le peculiarità di un mezzo potenzialmente accessibile a tutti da ogni dove.

La rete viene usata anche come mezzo per realizzare massicce azioni di protesta e di disobbedienza civile. È in questo passaggio che i computer e la rete Internet diventano strumento e teatro della contestazione, lo spazio dove la protesta, il rifiuto, la critica, espresse collettivamente, prendono forma e dalle parole si passa ai fatti. È la netwar.

Le infowars e le netwars sono pratiche di conflitto tipiche dell’hacktivism, le cyberguerre no.

La cyberwar infatti si riferisce alla guerra cibernetica, cioè a una guerra che usa computer e reti di comunicazione come fossero armi. La cyberwar punta a smantellare i sistemi di comando, controllo e comunicazione delle truppe avversarie in una maniera pianificata mettendo in campo ingenti risorse computazionali centralizzate. Quindi è, per antonomasia, guerra di eserciti e servizi segreti. Anche se questo non significa che gli attivisti politici non siano in grado di farvi ricorso in casi particolari.

Le tecniche usate nei conflitti telematici sono spesso ibride e molteplici. Così come la protesta cibernetica si esprime in molti modi – le tecniche di interferenza e boicottaggio adottate nei vari contesti possono essere assai diverse fra di loro, ma spesso si distinguono per intensità, motivazioni e numero di partecipanti alle azioni – la stessa cyberwar può fare uso di tecniche di propaganda ben codificate e di apposite «leggi di guerra».

Le tecniche di infowar sono un miscuglio di campagne di informazione e di strategie comunicative derivate dall’avanguardia artistica che mirano a mettere in cortocircuito l’informazione istituzionale sfruttando l’attitudine al sensazionalismo tipico dei media mainstream e prendendosi gioco delle veline d’agenzia e del modo di costruire le notizie.

Le campagne d’informazione su Internet ad esempio, non sono altro che l’estensione digitale di forme di comunicazione tipiche dei movimenti politici di base, laddove l’email sostituisce il volantino, la petizione elettronica sotituisce il banchetto di firme all’angolo della strada, il sito web i manifesti murali e i cartelloni.

Il panico mediatico fa invece ricorso a notizie false per creare disorientamento, diffidenza e allarme. È il caso dei finti virus o della ‘soffiata’ relativa a una improbabile intrusione nei sistemi informatici protetti. Le netwars, invece, somigliano assai di più a forme pubbliche e collettive di azione diretta e puntano a creare disturbo e interferenza nelle attività di comunicazione dell’avversario. Sia esso una lobby politica o una azienda multinazionale, un governo locale o sovranazionale. In ogni caso si tratta di iniziative collettive e pubbliche di comunicazione radicale.

Il fax-strike, il netstrike, il mass-mailing, sono le forme in cui in Italia, si è sovente articolata la protesta collettiva degli attivisti digitali. Seppure diversi, i defacements stessi – la sostituzione di una pagina web con un’altra o con un messaggio irridente e critico – somigliano da vicino alla copertura di un cartellone pubblicitario o alle scritte sui muri. E anche in questo caso l’obiettivo è quello di appropriarsi di uno spazio per esprimere le proprie opinioni.

Le cyberguerre sono altra cosa. Tanto per cominciare non mirano a delegittimare oppure a contrastare l’avversario attraverso la propaganda, piuttosto mirano a interrompere e sabotarne i flussi informativi, danneggiando le sue infrastrutture di comunicazione. È il caso del D-Dos, del synflood, del mailbombing, dei virus informatici distruttivi, del furto e della diffusione di dati di alto valore strategico. Assaggi di queste cyberguerre si sono avuti all’epoca della crisi fra Usa e Cina in seguito alla bomba recapitata «per sbaglio» all’ambasciata cinese di Belgrado durante la guerra del Kosovo. In quel caso i computer del Pentagono e della Nasa furono bersagliati da milioni di lettere elettroniche con virus. Oppure nel caso del conflitto telematico che da anni combattono israeliani e filo-palestinesi. Nell’ottobre del 2000, ad esempio, sono stati proprio i giornali di Tel Aviv a riportare la notizia di un D-Dos che aveva messo fuori uso il sito ufficiale di Hizbollah, mentre attivisti arabi avevano deturpato i siti dell’università ebraica di Gerusalemme e dell’accademia di Netanya ed erano penetrati nel sito della difesa israeliano. Da qui il botta e risposta informatico che ha visto l’impiego di «cyberkatiuscia», cioè l’uso massiccio del mailbombing con virus distruttivi, entrambi diretti a mettere fuori uso i nodi di comunicazione avversari. No, la protesta digitale non è la cyberguerra e non ha nulla a che vedere col terrorismo informatico.

 

 

 

 

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