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Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete

 

di A. Di Corinto e T.Tozzi

 

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Introduzione - nota editoriale e ringraziamenti

La storia degli hackers è una storia che è stata già abbondantemente, ma non esaurientemente, descritta. Il termine «hack» ha un’origine lontana e non legata all’informatica, mentre il significato che ci interessa di questo termine è legato alla storia dell’hacking, una storia che, cominciata alla fine degli anni ’50, si è sviluppata fino ad oggi con una tale varietà di sfaccettature che un denominatore comune può essere trovato forse solo incrociando tre fattori: occuparsi di computer, usare il computer per migliorare qualcosa, farlo in modo non convenzionale.

Ma dire ciò è naturalmente vago.

Ecco perché al termine hacker viene costantemente aggiunto qualcosa e si ottiene dunque l’hacker del software, l’hacker dell’hardware, l’hackeraggio sociale, l’hacker art, l’hacktivism, e molte altre combinazioni ancora.

Ma sarà compito di questo libro spiegare nei dettagli questa storia più avanti.

La storia degli attivisti è anch’essa una storia già abbondantemente descritta.

Il termine, che in realtà ha negli Usa un senso diverso da quello «antagonistico» con cui si identifica parte dell’hacktivism europeo, viene usato per indicare coloro che cercano di migliorare il mondo «dal basso», all’interno dei movimenti sociali, nei collettivi politici, nell’underground artistico, ecc.. Una definizione questa, che descrive un implicito agire sociale, politico o culturale, o entrambe le cose.

Per quel poco e vago che per adesso si è ottenuto come definizione, l’unione di «hacker» e «attivismo» in «hacktivism» tende a significare un uso del computer, praticato in modo non convenzionale, finalizzato al miglioramento di qualcosa di utile per il mondo con implicazioni sociali, politiche o culturali.

Tutto ciò è ancora una volta impreciso e lo è ancor di più dal momento che nella storia che andiamo a raccontare oltre agli hackers e agli attivisti sono coinvolti molti altri soggetti: gli scienziati, le istituzioni governative, i media e gli operatori dei media, gli hobbisti, gli hippies e la psichedelia, i phone phreakers, i punks, la cosiddetta «virtual class», i «digerati», le Ong, i pacifisti, le aree social democratiche, le gang e le band, le università, i cyberpunk, gli scrittori di fantascienza, i finanzieri, gli imprenditori del terziario, i filosofi, i sociologi, gli psicologi, i politici, i miliardari, gli avvocati, gli insegnanti, gli intellettuali, gli artisti, e molti altri soggetti che con maggiore o minore rilevanza hanno contribuito a fare in modo che gli «hacktivisti» siano ciò che sono ora.

E questo perché il significato del termine hacktivism emerge per l’azione o reazione di una molteplicità di fattori sociali che sono tra loro inseparabili. Descrivere una storia dell’hacktivism implica inscindibilmente il dover descrivere una rete di relazioni e conflitti tra più fattori sociali.

Ad esempio, l’importanza delle ricerche svolte nelle università da alcuni scienziati è stata cruciale sia per la creazione dei primi computer che delle reti telematiche. Ma questa ricerca non sarebbe stata possibile senza i fondi governativi.

Questa ricerca non avrebbe inoltre avuto la direzione democratica che ha avuto se chi ne progettava le tecnologie non avesse vissuto un clima sociale di collaborazione e condivisione fortemente alimentato dalle aree più utopiche dei movimenti sociali e politici.

Queste scoperte non sarebbero state possibili se non grazie alla passione non remunerata e allo sforzo di individui che, oltre a dedicare la loro vita e il loro tempo libero a tali obbiettivi, hanno saputo e dovuto agire attraverso modalità non sempre ortodosse per riuscire a realizzare ciò che altrimenti la politica, la burocrazia o l’economia non avrebbero reso possibile. Inoltre i nuovi media non sarebbero potuti divenire tali se non ci fosse stata un’azione congiunta dei vecchi media per informare e diffonderne le notizie alla collettività.

Così come l’attenzione della collettività verso queste informazioni è stata resa possibile grazie alla mediazione da parte dei movimenti sociali che hanno saputo sedurre la comunità con un intenso passaparola intorno alle nuove tecnologie. Molte persone non si sarebbero avvicinate a queste tecnologie se non avessero potuto immaginare che esse potevano essere strumenti di pace o di comunicazione.

E probabilmente tali tecnologie non sarebbero mai decollate se qualcuno non avesse iniziato ad investirci capitali per realizzare dei profitti.

Molti movimenti, così come molte istituzioni politiche, non si sarebbero mai convinti ad intraprendere un’azione diretta a sviluppare l’uso di queste tecnologie se non fossero stati convinti dal lavoro di ricerca sviluppato non solo dagli scienziati stessi, ma anche da filosofi, sociologi, psicologi e altri intellettuali in genere.

E queste tecnologie non sarebbero diventate di massa se la «massa» non avesse trovato conveniente il loro utilizzo, ovvero se qualcuno gli avesse prospettato un loro utilizzo conveniente (come, ad esempio, il fatto che grazie ad una blue box e ad un computer avrebbero potuto effettuare telefonate gratis).

Così, lo sviluppo di queste tecnologie non sarebbe stato possibile se lo scambio dei saperi per realizzarle ed usarle non fosse stato inizialmente libero e fortemente collaborativo; dunque libero da costrizioni di carattere giuridico oltre che di tipo economico.

Ma ancora l’attenzione della collettività non sarebbe stata sufficiente se non ci fosse stato qualcuno – scrittori, artisti e cantastorie in genere – che non fosse riuscito a fare sognare la gente, non fosse riuscito a produrre un immaginario di seduzione collegato a tali tecnologie.

Infine tutto ciò non sarebbe potuto andare avanti se qualcuno non si fosse preso l’onere di trasmettere e insegnare le competenze necessarie agli altri per utilizzare o continuare a svilupparle.

Molti altri fattori ancora andrebbero elencati per descrivere la complessità grazie a cui i nuovi media sono potuti emergere e si sono potuti diffondere in maniera tanto vasta e profonda.

Ma ciò non ha prodotto necessariamente una situazione migliore per gli individui e per l’umanità nel suo complesso.

Lo sviluppo delle nuove forme di lavoro collegate alle nuove tecnologie, ad esempio, presenta ancora notevoli caratteristiche di sfruttamento e di alienazione. L’uso stesso di queste tecnologie implica ancora notevoli difficoltà e aspetti di divario sociale e di alienazione nella comunicazione.

In definitiva, i rapporti e le relazioni tra la gente mediati dal computer possono solo in certe condizioni dirsi migliorati.

Rispetto a forti valori democratici come l’uguaglianza, la libertà e la fratellanza dei popoli e degli individui è difficile affermare che il mondo sviluppatosi intorno alle nuove tecnologie possa essere considerato un mondo migliore del precedente.

Ecco dunque il motivo per cui tra i tanti fattori di complessità sociale elencati sopra vogliamo soffermarci su una parte, significativa, di questa vicenda, per narrare principalmente la storia degli hacktivisti ovvero di coloro i quali nel loro agire hanno sempre avuto e continuano ad avere come obiettivo primario un impegno attivo e consapevole per migliorare qualcosa del mondo attraverso l’uso del computer. E di migliorare le condizioni di libertà, di uguaglianza e di fratellanza tra i popoli attraverso un modello di reti telematiche finalizzato a questi obbiettivi.

La storia dell’hacktivism non è dunque la storia di chi ha cercato di trarre un profitto individuale dall’uso delle reti telematiche.

Non è la storia di coloro che, approfittando del potere derivatogli o dalle ricchezze o dalla delega ricevuta da altri, hanno fatto in modo che lo sviluppo delle nuove tecnologie non fosse indirizzato verso un modello positivo per l’intera umanità, bensì verso un modello da cui solo una minoranza potesse trarre profitto. L’economia globale, infatti, si è spesso mossa per proteggere interessi particolari nello sviluppo delle nuove tecnologie, anziché gli interessi dell’umanità intera.

Questo volupe perciò, sia per scelta tematica, sia per limiti di spazio, racconta solo una piccola parte della storia della telematica, cercando comunque di non tralasciare le date cruciali del suo sviluppo; non si sofferma sugli aspetti riguardanti le innovazioni tecnologiche, così come le azioni politiche istituzionali, che, sebbene parte fondamentale di questa storia, solo raramente sono l’espressione di una genuina attitudine hacktivist, mentre spesso si risolvono in forme politiche di mediazione tra le differenti pressioni sociali ed economiche.

Vediamo dunque quali sono i valori e gli obbiettivi dell’hacktivism, facendo prima una piccola premessa.

L’enunciazione di un valore è un atto simbolico.

La realtà è che i valori per essere tali devono essere radicati  nelle persone a un livello anche più profondo di quella che è la soglia della consapevolezza.

I valori non si trasmettono semplicemente attraverso le parole di un libro, o gli eventi organizzati da un collettivo, bensì attraverso la condivisione di esperienze, comportamenti e relazioni in cui, attraverso il confronto e il dialogo, il nostro essere si trasforma spontaneamente, e spesso inconsapevolmente, in una direzione etica condivisa.

Molte delle persone che fanno o hanno fatto hacktivism non lo praticano necessariamente all’interno di una strategia etica che mira al perseguimento di determinati valori. Spesso si fa hacktivism perché «viene naturale farlo». Perché è ciò che ci si sente di fare in una determinata situazione e non perché si aderisca formalmente a un gruppo, a un’area politica o a una strategia dichiarata.

Altre volte invece si fa hacktivism teorizzando e contemporaneamente esplicitando i valori di riferimento delle proprie pratiche.

Ciò non toglie che l’essere hacktivisti è il frutto di un processo collettivo e culturale che non può avvenire semplicemente attraverso una scelta razionale e che dunque il diffondere un’attitudine verso la ricerca di un mondo migliore è un lento processo che presuppone la condivisione e la partecipazione collettiva ad esperienze e comportamenti che facciano vivere tale etica..

Ma, si diceva prima, l’enunciazione di un valore è un atto simbolico. Vediamo dunque di elencare questi valori simbolici.

Alcuni tra i principali valori di riferimento dell’hacktivism sono:

– l’uguaglianza

– la libertà

– la cooperazione

– la fratellanza

– il rispetto

– la lealtà

– la pace

Questi valori sono il riferimento costante delle pratiche di hacktivismo e degli obbiettivi che esse perseguono. Ogni obiettivo raggiunto da una pratica hacktivist è un passo avanti verso la creazione di culture comunitarie che abbiano come riferimento i valori descritti sopra.

Ecco di seguito un elenco degli obiettivi perseguiti:

– Fare comunità

– Garantire la privacy

– Distribuire le risorse

– Difendere e/o organizzare i diritti

Questi obbiettivi vengono perseguiti attraverso pratiche che affrontano tematiche determinate e che fanno uso di un immaginario e di parole d’ordine. Inoltre tali pratiche, perseguendo questi obbiettivi, entrano in conflitto con alcuni aspetti dei modelli sociali in cui si inseriscono.

Molto spesso luoghi, progetti o eventi, così come l’agire di alcuni soggetti (individui o gruppi), sono divenuti punti di riferimento per queste pratiche, e lo stesso è accaduto anche a fonti di riferimento condivise come libri, opere multimediali, articoli, video e musiche.

 

Nota editoriale e ringraziamenti

 

 

Questo libro non è finito. Non solo perché ci vorrebbe un libro grande come la rete per raccontare per intero la vicenda che abbiamo provato a tratteggiare, ma perché le nostre risorse e conoscenze, lo riconosciamo, sono limitate. Avremmo avuto bisogno di più tempo, di più spazio e di qualche rilettura in più per fare il libro che sognavamo di leggere.

Nonostante questo abbiamo provato a costruire una bussola per orientarsi nel rompicapo della rete come la vediamo noi: portatrice di una profonda innovazione nei rapporti sociali, nell’immaginario e nel modo di fare politica.

Abbiamo volutamente omesso di approfondire alcuni discorsi, come quelli sul copyright e il free-software – altri ne hanno già scritto a sufficienza e meglio di noi – per provare invece ad offrire un percorso, storico e critico, sulle zone d’ombra dello sviluppo della rete come strumento di conflitto e agente di cambiamento.

Noi lo continueremo, e ci auguriamo che ciascuno scriva il suo per riempire i vuoti che noi abbiamo lasciato aperti.

Sicuramente abbiamo dimenticato di citare tante esperienze importanti, speriamo di non aver dimenticato di citare collettivi, testi e autori.

Qualcuno però lo ringraziamo in anticipo. Franco Carlini, Benedetto Vecchi e «Il Manifesto» prima degli altri. Graffio, Ferry.Byte, Stefano Sansavini e il gruppo di Decoder. I centri sociali, gli hacklabs, tutta la telematica antagonista e soprattutto Isole nella Rete. Ringraziamo infine tutti quelli che abbiamo nominato nel libro e quanti con il loro agire concreto hanno contribuito a «scrivere» la storia che andiamo a raccontarvi.

 

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