Informazioni in movimento

 

 

da "il manifesto" del 26 Gennaio 2003 MEDIA Informazioni in movimento A Porto Alegre si discute di democrazia nei mezzi di informazione. Senza scartare la possibilità di crearne di nuovi BENEDETTO VECCHI, «I media possono essere democratizzati?». Per la risposta bisogna essere pazienti e leggersi trenta contributi in distribuzione al Gigantino, il palazzetto dello sport dove si tengono le conferenze del Forum sociale mondiale di Porto Alegre. Ma la moltiplicazione delle analisi e delle testimonianze di chi è impegnato sul «fronte dei media» non corrisponde all'alternativa che sta emergendo in questi giorni nella città brasiliana: «democratizzare i media o puntare a costruirne di propri?». Un quesito niente affatto accademico, ma politico che ritorna ogni volta che un movimento sociale impone nella discussione pubblica i propri temi. Il fatto che il «movimento dei movimenti» si è strutturato a livello mondiale attraverso un media (Internet) e che abbia una rivista prestigiosa (Le Monde Diplomatique) quale luogo «ufficiale» di elaborazione dovrebbe comunque far riflettere che l'altenativa non è così secca come appare in un primo momento. Inoltre, da Seattle in poi, non sono pochi i giornalisti e le giornaliste che hanno fatto dell'informazione attorno al «movimento dei movimenti» il loro interesse primario all'interno dei «media commerciali». Ci sono poi le molteplici iniziative delle Ong nel Sud del mondo tese a costruire radio comunitarie, televisioni di strada, fanzine autonome e indipendenti dal potere economico.Insomma, queste sono le novità che irrompono negli appuntamenti dedicati all'informazione di questa edizione del forum sociale. Nei giorni scorsi hanno animato il seminario che vedeva la presenza di Bernand Cassen (Le Monde Diplomatique) e degli italiani Giulietto Chiesa e Anna Pizzo (Carta), nonché dell'incontro che si è tenuto ieri nei magazzini del porto sul digital divide e nel workshop che si è svolto nel campo della gioventù sulle inziative a favore del free software e dell'open source .Per quanto riguarda questa ultima iniziativa, ovvie le critiche al copyright, al punto che quest'anno gran parte dei computer della sala stampa utilizzano una versione - Redhat - del sistema operativo Linux, cioè un insieme di programmi non sottoposti al diritto d'autore. Più interessante è invece la proposta sostenuta dalla rete Lilliput di raccogliere 150mila dollari da destinare a un progetto brasiliano per non utilizzare il sistema operativo della Microsoft e puntare invece a sistemi open source, proposta che incontra la simpatia degli esponenti del «nuovo corso» politico brasiliano. C'è poi il fatto che Internet e i personal computer sono a tutti gli effetti un media a basso costo. Così, nel seminario sul digital divide si è discusso molto su come sfruttare le potenzialità del web per dare vita a media autonomi dal potere economico. Infatti, per molte organizzazioni del Sud del mondo c'è la consapevolezza che Internet è usato all'80 per cento a nord dell'equatore, ma la diffusione del web è considerata una opportunità da non sprecare con sterili atteggiamenti«tecnofobi» nella produzione di media indipendenti. Lo hanno affermato con forza sia Prabir Purkayasta del Dehli science forum che il brasiliano Rodrigo Baggio del Comitè para democratizacao da Informacias e la francese Valerie Peugeot della ong Vecam,i quali hanno comunque sottolineato che il diritto alla comunicazione e alla formazione sono da considerare diritti universali.Ma se si discute di informazione non si possono dimenticare i cosiddetti global media. E in questo caso quello che appariva semplice (costruire un media indipendente) incontra qualche ostacolo nel mostrare la sua efficacia politica. I global media sono grandi e potenti: come contrastare quindi il loro ruolo di «fabbrica del consenso»? Una delle strategie per contrastarli è quella lillipuziana, cioè dieci, cento, mille piccoli media e imbrigliare così il potere persuasivo dei persuasori occulti. In fondo è ciò che fa Indymedia. Ma Cherry, una delle sue fondatrici a Seattle, e presente a Porto Alegre, sostiene che bisogna pensare in grande e dare vita a momenti di «guerriglia comunicativa», mettendo in campo esperienze che agiscano al confine tra dentro il sistema dei media e fuori. Indicazione metodologica affascinante, ma tutta da tradurre secondo criteri di fattibilità.