Intervista Mario Isnenghi

 


<< Non vorrei "strologare", creando mitologie sul modello del Veneto>>, afferma con un sorriso sornione stampato sul viso lo storico Mario Isnenghi che di questa regione è, insieme ad altri, la memoria storica. Famosi sono i suoi studi sulla grande guerra (Il mito della grande guerra), ma da leggere appassionatamente sono anche la raccolta di saggi e di documenti su una esperienza, spesso dimenticata della storia culturale dell'Italia, quella cioè relativa alle riviste fiorentine, nonché l'accurata analisi sugli intellettuali durante il ventennio fascista, in cui Isnenghi delineava i contorni delle istituzioni culturali messe in piedi dal regime nella sua ricerca del consenso (Intellettuali militanti e intellettuali funzionari).
Ed è con la stessa passione che lo storico veneziano cerca, da anni, di analizzare il «modello veneto», senza appunto alimentare mitologie o letture affrettate del miracoloso Nord-est.
Anzi, per Isnenghi la cautela nella ricostruzione storica del Veneto è dovuta a un semplice fatto: studiare il Veneto è come studiare la storia d'Italia. Ed è proprio sulla ricerca della genesi del «modello veneto» che l'incontro ha avuto luogo. Con estrema gentilezza e pacatezza, Isnenghi ha risposto pazientemente alle domande, senza nessuna semplificazione, dosando parola per parola.
Una cautela che non è venuta meno neanche quando le domande cercavano di districare l'intricata matassa del rapporto tra la storia della Regione e il complesso gioco politico che avvolge la regione. Per lo storico, infatti, il successo della Lega e il miracolo nord est affondano le radici nel
processo di modernizzazione del paese.
Ed è ovvio che la prima domanda parta proprio da questo rebus.
Vecchi Benedetto

Molte interpretazioni individuano il successo elettorale della Lega Nord in una anomalia del Nordest nutrita dall'adesione ai valori della famiglia e dal forte radicamento al territorio. Valori che sembrano permanere nonostante le trasformazioni produttive che hanno interessato la regione. Tuttavia, nel Nord- est si manifesta un "unicum" produttivo che annulla, anche spazialmente, la differenza tra città e campagna e dissolve di fatto le identità consolidate.
Mario Isnenghi
Innanzitutto mi sembra sia il caso di segnalare positivamente che il collegamento tra la Lega Nord e il Veneto non avvenga più attraverso la rusticità dei personaggi caratterizzanti la Lega. Occorre un preliminare passaggio periodizzante, dal momento che la identità esterna del Veneto, ma qualche
volta persino l'identità interna verso se stessi, è stata a lungo connotata da un senso di inferiorità. Mi sembra quindi un passaggio positivo quello di riconnettere l'esplosione e la tenuta della Lega non al sottosviluppo, che qui non c'è da decenni, bensì a un certo tipo di sviluppo economico che, e
questo è l'elemento caratterizzante di quello che è stato chiamato il modello veneto, aveva saputo mantenere, più che in altri luoghi, legami con le tradizioni locali.
Quindi sviluppo nonostante la tradizione, anzi sviluppo grazie alla tradizione, o meglio alle tradizioni.
Questa mi sembra possa essere una spiegazione dell'intenso sviluppo caratteristico del policentrismo urbano. Va ricordato che ciò, nel secondo dopoguerra, avveniva sotto l'egida politica della Democrazia cristiana, ma che il testimone è passato alla Liga Veneta prima e alla Lega Nord poi in combutta e in alternativa a Forza Italia.
Ora come ora, par di capire che l'insediamento della Lega sia meno effimero di quello che si poteva supporre. Inoltre, i suoi titoli di eredità rispetto al blocco democristiano sono maggiori di quanto
non sia invece per Forza Italia, il partito-azienda che è comunque insediato alla testa della giunta regionale.
Il successo della «Liga» è quindi un fenomeno riconducibile alla storia di questo territorio più di quanto si possa dire per Forza Italia. Questo pone dei problemi nell'analisi dei rapporti tra la Lega, la Democrazia cristiana, il movimento cattolico e con tutti i «segni del sacro» che caratterizzano da secoli e in modo specifico questo territorio. Non va mai dimenticato, però, che quando si parla di Veneto, si studia l'Italia.
E' quello che abbiamo sostenuto da molti anni io e i miei amici quando abbiamo studiato il Veneto. Pensavamo di fare una storia locale molto speciale che, allo stesso tempo, serviva come lente
d'ingrandimento sulla storia complessiva del Paese.
Si parlava e scriveva del modello veneto e del suo rapporto con la tradizione: una griglia interpretativa che è stata riconosciuta e apprezzata da altri studiosi di discipline diverse dalle nostre.
Anche nel Veneto come altrove c'è stata se non l'«eclissi del sacro», un fortissimo appannamento delle motivazioni etico-religiose nella vita quotidiana. Un fortissimo appannamento che però non significa eclissi, perché accanto allo scatenarsi di micro egoismi familiari che sono certamente alla base del consenso alla Lega, c'è un fortissimo agire sociale motivato anche religiosamente.
In fondo, il Veneto è la regione di Nigrizia.
Inoltre, non mi sono mai associato alla visione del Veneto come minus habens, e anche con la "Liga Veneta" non ci trovavamo di fronte un fenomeno rozzo e primitivo, espressione di luoghi sottosviluppati.
Non si può però dire che la Liga abbia introiettato il solidarismo cristiano che costituiva il corredo genetico del movimento cattolico e della Democrazia cristiana. Nel tempo questo corredo genetico ha avuto una diaspora, che ha centrifugato tessere, valori e comportamenti in più direzioni.
Di conseguenza gli elementi del solidarismo cristiano non sono più convogliati all'interno di un unico partito politico, ma si sono diffusi ovunque: in realtà, si sono disuniti politicamente, ma continuano ad esistere.
Ciò che è stato sicuramente ereditato dalla Liga sono il senso della famiglia e l'idea della famiglia come azienda naturale, così pure il senso del campanile e del municipio, che da noi non ha le
tradizioni di contrapposizione alla chiesa parrocchiale che ha avuto in altre regioni.
A lungo, infatti, municipio e chiesa parrocchiale hanno felicemente convissuto.
Questo nel periodo democristiano.
Certamente ora ci sono dei parroci leghisti, ma non credo che il trasferimento armi e bagagli di moltissimi elettori dalla Dc alla Lega si possa tranquillamente attribuire e in modo proporzionato ai parroci. Ma credo, nonostante l'assenza di statistiche precise, che possano esserci parroci leghisti in numero proporzionalmente inferiore rispetto alle anime di cui sono pastori.
Oltre a ciò, un'altra cosa è passata dalla Dc alla Liga: è il non-Stato, cioè l'abitudine a fare da soli, a sentirsi altro dallo Stato. Municipio, chiesa, qualunque altra cosa di più ravvicinato che non sia lo Stato.
La chiesa, forse, era l'unico «sfondo grande» concepibile.
Vecchi Benedetto
E l'idea che viene sbandierata di una affinità elettiva con la vicina Germania?
Mario Isnenghi
Sì, l'altra cosa che potremmo esplorare è quella relativa a eventuali fili sotterranei mantenutesi con questo mondo dai confini incerti che comprende austriaci, bavaresi, "todeschi". Certamente, anche da noi c'è stata l'immagine negativa nei confronti dei tedeschi, che nasce nel Risorgimento, e si rinnova nella grande guerra e nella Resistenza. Ma forse questi legami non sono mai stati recisi del tutto e potrebbe essere rimasta una forma di ammirazione e rispetto nei confronti della burocrazia austro-ungarica e ciò che essa rappresenta: l'ordine, la precisione, la correttezza, cioè tutti quei valori rispetto ai quali sarebbero disvalori invece le improvvisazioni, i pressapochismi attribuiti di solito agli italiani.
Tuttavia penso che la cosa più sostanziale sia l'ammirazione per l'ordine, l'efficienza e la riuscita
economica del Nord Europa, che viene comunque pensata a egemonia tedesca, con la conseguente attenuazione dell'avversione nei confronti dell'«elmo chiodato», che rappresenta, all'opposto, l'eccesso di ordine. In fondo, i tedeschi sono stati conosciuti nei loro lati negativi anche nel Veneto. Ma le memorie vanno e vengono, e in questo momento è offuscata la memoria del negativo, sovrastatata da ciò che è individuato come positivo: ordine più sviluppo.
Vecchi Benedetto
Per Il Nord-est, molti osservatori parlano dl una insufficienza della società civile nei confronti di uno sviluppo economico senza precedenti. Le citazioni più frequenti sono tratte dalla cronaca nera che ha dominato, in alcuni casi le prima pagine dei quotidiani.
Mario Isnenghi
Mon mi sembra che la debolezza della società civile sia un problema del solo nord-est, ma riguarda tutta l'Italia.
Quando si parla di anomalia italiana si parla di questo, cioè della sconnessione tra società e stato.
Ma se ci riferiamo al Veneto dobbiamo tornare alla specificità cattolica di questa regione e alle forme di supplenza sicuramente pervasive che la chiesa cattolica ha esercitato in questa regione in forma ingigantita rispetto ad altre parti d'Italia.
Dopodiché, omicidi all'interno della famiglia come quello compiuto dal giovane Maso avvengono un po' da tutte le parti. Certo, colpisce quando avvengono in luoghi che si continua a ritenere i luoghi delle tradizioni.
Comunque, Ferdinando Camon ha già più volte scritto qual è il ruolo di una città come Verona nel commercio dell'eroina.
Solo che i luoghi comuni durano più dei fatti che li hanno generati.
Vecchi Benedetto
Senza fare impressionismo spicciolo un altro del luoghi comuni che ricorrono di più è una certa avversione da parte dei protagonisti del miracoloso nord-est nei confronti di alti livelli di acculturazione, quasi che l'accesso alla cultura sia un elemento da tenere a debita distanza.
Poco prima delle elezioni in più di un articolo del Gazzettino veniva individuato un punto debole nel modello veneto: la limitata circolazione del sapere e la bassa qualificazione della forza lavoro. Due elementi che potrebbero pregiudicame il successo...
Mario Isnenghi
Risponderei su due livelli. Il primo rigurda lo iato tra la velocità dello sviluppo economico e la trasformazione dei meccanismi concettuali per pensare quello che stava accadendo a livello materiale.
Uomini molto bravi a produrre nella maniera che si considera caratteristica del Nord-est sono rimasti indietro nell'elaborare un'identità collettiva adeguata a questo sviluppo: mi sembra che questo sia il lato negativo del miracoloso Nord-est. Certamente, si tratta di equilibrare, migliorare la formazione scolastica. Ma è un problema del Veneto o di gran parte dell'Italia?
Il federalismo e l'autonomia decisionale dei Comuni e delle Regioni potrebbero consentire di più di quanto fosse consentito se solo ci fosse una capacità di pensare di più a queste cose.
Non risulta però che in altri luoghi siano state inventate scuole capaci di stare dietro o di anticipare le oscillazioni del mercato del lavoro.
In realtà, nel nord-est si è stati capaci di «fare». Non altrettanto si può dire per gli altri piani connessi al processo produttivo, come la formazione o diffondere sul territorio luoghi di produzione del sapere.
Il secondo piano del discorso è più a livello antropologico sociale: I' «uomo di fatti e di cose» quando incontra un uomo di pensiero è portato a valorizzare ciò che fa e produce.
E' quindi fisiologica una oscillazione tra orgoglio e senso di inferiorità. Va comunque tenuto presente che siamo ancora alla prima o forse alla seconda generazione che ha consentito questa crescita della ricchezza e che ha significato un passaggio di status, in cui i vecchi simboli e tradizioni hanno fatto acqua e non c'è stato ancora il tempo per sostituirli e eleborarne di nuovi ... uno sviluppo sbilanciato, tutto fattuale, cosale.
Così si spiega l'affermarsi di una ideologia e di una enfasi centrata sull' «uomo dei fatti».
C'e chi guarda al nord est come il laboratorio per sperimentare e verificare ciò che accadrà nel resto d'Italia, basti pensare alle analisi sullo sviluppo e il declino industriale di Porto Marghera, con la conseguente crisi della grande fabbrica.
Il termine laboratorio mi sembra ormai abusato. Anche io e i miei amici lo abbiamo usato, però pensavamo alla fabbrica diffusa, al policentrismo urbano che ha permesso la crescita della rete di piccole e medie imprese. Realtà che era difficile farla coincidere con l'esperienza produttiva di Porto Marghera.
Una difficoltà analitica che abbiamo cercato di risolvere studiando la tipologia della classe operaia di Porto Marghera, constatando che il lavoratore che andava a lavorarci non diventava il proletario sradicato, bensì il famoso «metalmezzadro» che ri maneva legato alle radici.
Solo cosi si poteva recuperare l'idea di uno sviluppo industriale senza lacerazioni.
Da questo, l'idea di una società civile non fondata sui principi dell'89.
Vecchi Benedetto
Arnaldo Bagnasco parla di una terza Italia, cioè di una diversa forma capitalista.
C'è poi chi sostiene che la fuoriuscita di molti operai in seguito alla ristrutturazione dl Porto Marghera e la loro trasformazione in lavoratori autonomi o piccoli imprenditori sia stato il motore dello sviluppo del nord-est.
Queste due spiegazioni danno per scontata l'idea che il nord-est sia una forma specifica e del tutto innovativa di capitalismo, differente da quello incentrato sulla grande fabbrica.
Mario Isnenghi
La morte della grande fabbrica come preludio a una nuova fase produttiva. La morte come vita, quindi. Forse, ma questo si potrebbe dire anche di Monfalcone o dei cantieri navali di Trieste. La crisi della grande fabbrica non riguarda solo il Nord est. Dal punto di vista dell'evento, cioè la crisi della grande fabbrica, potrebbe significare la fine di una differenza, un ritorno alle origini. Questo pero lo potrebbero spiegare meglio gli economisti, i sociologhi, quelli che manovrano le cifre.
Non vorrei proprio «strologare» con mitologie.