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Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete

 

di A. Di Corinto e T.Tozzi

 

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1. Dall'hacking all'hacktivism - 1.1. Culture hacker

Come abbiamo detto, elemento ricorrente nell’hacktivism è un uso del computer praticato in modo non convenzionale e finalizzato al miglioramento di qualcosa di utile per il mondo con implicazioni sociali, politiche o culturali, e spesso chi fa dell’hacktivism agisce teorizzando ed esplicitando i valori di riferimento delle proprie pratiche.

Così l’hacktivism può essere descritto come l’insieme di pratiche sociali e comunicative, valori e stili di vita, in aperto conflitto con i valori del pensiero dominante e cioè l’individualismo, il profitto, la proprietà privata l’autorità, la delega e la passività sociale.

Proviamo ad essere più precisi.

Il termine hacktivism deriva dall’unione delle parole hacking e activism. L’hacking è la messa in opera di una particolare attitudine verso le macchine informatiche che presuppone sia lo studio dei computer per migliorarne il funzionamento – attraverso la cooperazione e il libero scambio di informazioni tra i programmatori – sia la condivisione del sapere che ne risulta per dare a tutti accesso illimitato alla conoscenza in essi incorporata.

Activism in senso stretto è il termine americano che indica le modalità dell’organizzazione e della propaganda politica proprie dei movimenti politici di base (grassroots movements) e, in particolare, indica le forme dell’azione diretta come i sit-in, i cortei, i picchetti, il boicottaggio delle merci e dei consumi, l’occupazione di stabili e di strade, l’autogestione degli spazi e l’autoproduzione di beni, merci e servizi.

L’evoluzione delle forme dell’attivismo sociale e della militanza politica che presuppongono un uso efficace degli strumenti di comunicazione, e in particolare dei computer, ha nel tempo favorito l’adozione di idee e tecniche proprie della cultura hacker da parte dei movimenti ambientalisti e pacifisti, per i diritti umani e civili. Così dai volantini siamo passati alle petizioni elettroniche e dalle manifestazioni di piazza ai sit-in elettronici.

Questo è il risultato di due fatti strettamente correlati. Il primo è la virtualizzazione delle forme della democrazia e dell’economia. Il secondo è il riconoscimento della comunicazione come terreno di conflitto a sé stante per gli effetti che produce nella vita «reale». Di entrambe questi aspetti parleremo successivamente.

Ma se l’unione delle due parole hacking e activism viene utilizzata per indicare l’adesione ai principi dell’etica hacker e l’adozione delle loro pratiche da parte dei movimenti sociali, essa indica anche la crescente caratterizzazione in senso politico e sociale di quella attitudine che è l’hacking, che si esprime in un rapporto, finora inedito, fra gli hackers e i movimenti, dilatando ulteriormente il punto di vista dei primi hackers secondo il quale le tecnologie devono essere strumenti di cambiamento sociale.

In quest’ottica il computer e le reti smettono di essere soltanto mezzi produttivi e diventano strumento di nuovi conflitti che gli hacktivisti agiscono essenzialmente in due modi: innanzitutto producendo informazione indipendente «dal basso», e sabotando i modelli e i simboli della comunicazione dominante, e al tempo stesso producendo i luoghi e gli strumenti di una comunicazione libera, orizzontale e indipendente.

Alla base di questa attitudine c’è un’idea peculiare del ruolo dell’informazione e della comunicazione: l’informazione non è intesa soltanto come news ma come strumento organizzativo e di iniziativa pubblica e la comunicazione telematica diventa spazio d’azione e di relazione, scena e teatro dei nuovi conflitti.

La sintesi di questi due momenti ha visto la nascita di un nuovo modello di informazione collettiva che procede attraverso forme di relazione e di comunicazione peculiari, cioè mediante lo sviluppo dei Media Indipendenti su Internet.

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