Hacktivism. La libertà nelle maglie della rete
di A. Di Corinto e T.Tozzi |
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2.1.2.
Autonomia e Decentramento |
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Una rete telematica
non è per forza di cose una rete decentrata. I primi progetti di rete
telematica di Baran, nel 1960, distinguono tra tre tipi di rete: centralizzata,
decentrata e distribuita. Il modello di rete centralizzata è quello
della rete Fidonet. Questa rete, sebbene creata da un anarchico ha
poi avuto uno sviluppo differente, con una classica organizzazione
gerarchica di tipo piramidale. Il modello della rete Internet ricalca
invece il modello di rete decentrata. In questo modello vi è una molteplicità
di centri connessi tra loro, ognuno dei quali si collega con una molteplicità
di punti della rete. In questo modello, se non funziona uno dei centri
tutti i punti ad esso connessi sono tagliati fuori dalla rete. Diversamente,
il modello di rete distribuita è quello di una rete in cui ogni punto
è connesso con un numero maggiore di altri punti e attraverso di essi
con il resto della rete. In questo modello l’interruzione del funzionamento
di un punto non compromette il funzionamento degli altri punti ad
esso collegati, che sono in grado di trovare un altro percorso per
collegarsi al resto della rete. Il modello di rete distribuita è rappresentabile
visivamente come la classica rete dei pescatori. Questo modello di
rete è simile a quella definita di tipo rizomatica in cui ogni punto
è connesso a tutti gli altri punti. Il termine viene dal rizoma della
patata le cui radici sono potenzialmente connesse ognuna con tutte
le altre; di fatto anche le radici della patata assomigliano al modello
di rete distribuita di Baran. Rizoma è il titolo di un libro di Deleuze
e Guattari del 1976 in cui si teorizza l’autonomia delle singole unità
connesse in rete.
Il rifiuto
delle gerarchie, dell’autoritarismo e del totalitarismo A partire
dagli anni Sessanta e Settanta si cerca di sviluppare reti di tipo
rizomatico per superare i modelli di tipo gerarchico, postulando un
diritto a comunicare telematicamente senza barriere, riconosciuto
ad ogni cittadino del mondo. Perciò il
termine decentramento è stato fin d’allora una parola d’ordine che
si è sviluppata come rifiuto di ogni gerarchia sociale e di ogni modello
centralizzato e unidirezionale. Una parola d’ordine di uso comune
nelle culture alternative e nelle controculture degli anni Sessanta
e che ritroviamo anche al Mit nei discorsi degli hackers. L’idea di
decentramento è presente nelle descrizioni di Usenet 7
in cui spesso viene usata la parola anarchia, non nel senso di caos
e disorganizzazione, ma nel senso che il flusso delle parole tra così
tanti utenti avviene senza una gerarchia centrale che governi, né
una direttiva, né personale tecnico. Con le prime
comunità virtuali nacque dunque una sorta di utopia anarchica, una
specie di ideologia dell’autogestione che sentiva di fare a meno delle
direzioni, delle federazioni, delle forme associative e politiche
tradizionali: la rete era fondata sulla partecipazione dal basso e
sulla comunicazione diretta senza filtri (Gubitosa, 1999, p. XIII).
Nel campo
dell’organizzazione del lavoro, le comunicazioni telematiche decentrate
vengono rivendicate come modelli in grado di infrangere le barriere
gerarchiche e di reparto, le procedure operative standard e le norme
organizzative. Seguendo finalità
opposte, il sistema di potere e di produzione capitalista ha però
estremizzato il decentramento per frammentare i lavoratori e impedire
l’organizzazione del dissenso (AA.VV. 1991, p. 96-97). Sebbene le
varie unità produttive decentrate siano organizzate attraverso una
rete informativa globale che le sovrasta, la strategia del potere
è di impedire che le unità decentrate si coordino attraverso questa
rete globale. Questi impedimenti non sono solo espliciti, attraverso
la repressione e il controllo, ma anche impliciti nelle caratteristiche
stesse della tecnologia che producono discriminanti e selezione all’accesso:
costo, difficoltà d’uso, evoluzione continua degli standard. L’idea di
decentramento, come vedremo, ha avuto dunque due opposti approcci:
da una parte la richiesta dell’autogoverno, dall’altra una differente
gestione delle unità produttive parcellizzate che venivano spostate
dalla fabbrica fordista alla rete decentrata. Questo secondo approccio
è visto da una parte come tentativo di rimediare alla difficoltà di
organizzazione del lavoro nel modello fordista, dall’altra come frammentazione
del dissenso (mancando la fabbrica viene a mancare il luogo in cui
si forma quella che Marx definiva la coscienza di classe) e nuova
possibilità di controllo attraverso le tecnologie digitali.
Il rifiuto
dei monopoli e della sudditanza Tra i principi
contigui all’idea di decentramento vi sono quelli per cui la comunicazione
non può essere regolamentata da privati né appropriata e che deve
esistere una libertà dai grandi oligopoli mediatici ed editoriali. Nell’ultimo
quarto del XX secolo, l’economia transnazionale rappresentata dalle
industrie della comunicazione americane e favorita dalle nuove tecnologie
telematiche viene sentita come «aliena» dal mondo non-occidentale.
Viene denunciata la possibilità che il «villaggio globale» di M. McLuhan,
orchestrato attraverso le nuove tecnologie, possa essere una nuova
forma di dominazione culturale. La teoria dell’«Imperialismo dei media»
sostiene che lo sviluppo economico e culturale di un paese è minacciato
dall’invasione di televisione e film americani. Secondo questa
analisi le imprese dei media supportano l’espansione delle corporazioni
transnazionali (Tncs) e sono parte di un nuovo complesso militare-industriale
e delle comunicazioni 8. Inoltre, la cultura
e le comunicazioni influenzerebbero la società; la cultura e le comunicazioni
prodotte in un sistema capitalista sarebbero portatrici di un’ideologia
capitalista che aiuta il capitalismo a riprodursi. La difesa
americana della «libera circolazione delle informazioni» è in realtà
la difesa degli interessi dell’economia capitalista che, partendo
da una posizione di forza, diventa dominante all’interno di un sistema
di globalizzazione conseguente allo sviluppo dei nuovi media e in
generale delle nuove tecnologie di comunicazione informatiche e telematiche.
Un sistema di comunità deve dunque essere in grado di limitare la
presenza di una dominante che tenda ad oscurare fino a far sparire
le minoranze. In una comunità l’informazione viene intesa come luogo
della comunicazione, ovvero si svolge in un processo di dialogo e
relazioni di evoluzione e trasformazione dell’informazione stessa.
Di contro in una società «globalizzata» l’informazione viene intesa
come servizio. Costituiscono dunque altrettante minacce alla democrazia
delle comunicazioni: un accesso ineguale ai media, la concentrazione
delle risorse dell’informazione nelle mani dei gruppi economici, la
censura e altre forme di controllo governativo. Di contro una comunità
difende il diritto a comunicare (Roach, 1993, pp. 24-29). Internet vince
perché fornisce i protocolli più diffusi al mondo per l’interoperabilità
delle reti di computer, vince quindi come linguaggio condiviso dalla
comunità telematica. Non si tratta della vittoria di un’azienda o
di un gruppo di operatori su altri, ma di una sorta di «riforma» di
massa della comunicazione telematica (Blasi, 1999, p. 55). Resta però
il problema che le ricerche su questi protocolli e le infrastrutture
di collegamento tra le macchine che li usano vengono finanziate dagli
enti militari, da quelli universitari e di ricerca, comunque da enti
governativi americani. Ciò crea una supremazia ed un vantaggio che
è in grado di sfruttare economicamente il suo anticipo di conoscenza
sulle tecnologie della comunità. È in grado di imporre l’uso delle
proprie infrastrutture e farne pagare il pedaggio. È in grado in tal
modo di controllare lo sviluppo delle economie degli altri paesi.
Infine, la proprietà delle infrastrutture da parte americana istituisce
un controllo sul loro uso, discriminando di conseguenza sui contenuti
che vi circolano e dunque sul tipo di vita delle comunità che ne fanno
uso.
Il rifiuto
della censura e del controllo nel rispetto dei diritti reciproci Un uso sbagliato
della rete conduce all’utopia negativa del Panopticon 9:
una situazione di controllo dall’alto della vita sociale svolta in
rete. Le reti telematiche sono usate per sorvegliare, controllare
e disinformare gli utenti. In opposizione a ciò l’assenza di controllo
è stata pretesa come riconoscimento di un diritto individuale, con
la sola condizione che la libertà del singolo non invadesse gli spazi
della libertà altrui. Uno dei principi dei movimenti è quello per
cui così come deve essere garantita la privacy dell’individuo, il
popolo delle reti deve essere in grado di controllare e partecipare
alle scelte gestionali di coloro che posseggono e gestiscono le reti
pubbliche. L’idea del
decentramento è stata invece intesa da altri come libertà nella ricerca
del profitto individuale. L’idea base
delle comunità virtuali rifiuta la logica del profitto individuale.
Dunque il loro sviluppo attecchisce spontaneamente nelle aree che
rifiutano il liberismo nel mercato. Sono esempi di volontariato no
profit che anche quando si preoccupano di fornire un reddito a chi
vi opera, non mirano mai a uno strumento di profitto. Nel 1971 alla
riunione di addio del Whole Earth Catalog, F. Moore, uno di coloro
che fonderà nel 1975 l’Hombrew Computer Club 10,
disse: «noi sentiamo questa sera che l’unità delle persone è più importante
del denaro, è una risorsa maggiore del denaro» (Levy S., 1996, pp.
201-202).
Il divario
digitale Un altro timore
è che in quelle aree in cui sono favoriti legami simbiotici con i
computer si avrà un alto livello di intelligenza individuale producendo
nicchie geografiche in cui viene favorito l’accesso al software per
l’elaborazione del sapere (Leary, 1994, p. 41). In conseguenza di
ciò si crea un divario tra il nord e il sud del mondo, tra chi avrà
e chi non avrà accesso all’uso delle nuove tecnologie telematiche.
Contro questa evoluzione si sono da sempre mossi gli sforzi dei movimenti.
Fin dalla nascita della rete telematica European Counter Network (Ecn)
11, nel 1989, il problema di stampare
i file delle reti su carta per farli leggere a chi non aveva il computer
(AA.VV., 1991, pp. 86-87). Decentramento
è stato inteso come orizzontalità, come redistribuzione del potere
alla base. Di fatto però non esiste orizzontalità reale se a formare
le comunità virtuali è solo un’elité privilegiata. L’interattività,
per essere tale implica l’universalità.
Autodeterminazione
ed autogestione Il Free Speech
Movement negli anni sessanta, antiideologico per scelta, aveva tentato
di affermare il principio, sancito dal Primo emendamento della Costituzione
Americana, che sancisce la libertà d’espressione (così recita l’articolo:
«Il Congresso non potrà fare alcuna legge per il riconoscimento di
qualsiasi religione, o per proibirne il libero culto, o per limitare
la libertà di parola o di stampa...») (Guarneri, 1999, pp. 60-61).
La lotta del Free Speech Movement implicava dunque la difesa del libero
scambio senza alcun ostacolo all’informazione. La controcultura negli
anni Sessanta sosteneva il principio generale del «Power to the people».
Si volevano difendere i diritti costituzionali dell’individuo e restituirgli
la possibilità di essere un attore sociale. Le persone non sono terminali
passivi di un flusso informativo organizzato dall’alto. La loro libertà
consiste nel produrre azioni e comunicazioni sociali libere da pregiudizi
e discriminazioni di razza, di sesso o di religione, anche quando
queste dovessero andare contro gli interessi economici o politici
costituiti. Vi era dunque
nei movimenti la ricerca dell’autonomia dell’individuo come riconoscimento
del suo diritto ad essere libero. Un’autonomia che riguardava anche
la gestione dell’informazione. Simili istanze
le ritroveremo, ad esempio, nelle politiche della glasnost. A. N.
Yakovlev, membro del Politburo e stratega della politica della glasnost,
descrive questa riforma come segue: «Fondamentalmente, stiamo parlando
di autogoverno; ci spostiamo verso un’epoca in cui la gente sarà in
grado di governare se stessa e di controllare le attività delle persone
cui è stato affidato il compito di apprendere e di governare. Non
a caso parliamo di autogoverno, di autosufficienza, di autoprofittabilità
di un’impresa, di auto questo e di auto quell’altro. Il tutto riguarda
il decentramento del potere» (Leary, 1994, p. 63). All’idea di
governo come controllo dall’alto di una società di sudditi è stata
più volte contrapposta l’idea (non nuova) di autogoverno in cui il
confronto delle libertà individuali co-pilota la comunità. Queste idee
si sono riflesse nelle nascenti reti telematiche. Uno dei punti
fondamentali nello sviluppo di queste tecnologie è stato quello per
cui «le comunità virtuali non devono essere sottoposte ad autorizzazioni
o censure e devono essere riconosciute e tutelate in quanto strumento
di utilità sociale per la libera manifestazione del pensiero». Si difenda
il principio secondo cui gli utenti hanno diritto di autogestire in
rete risorse telematiche secondo criteri di autoregolamentazione.
Si è difesa la possibilità di un’autogestione di spazi di discussione
da parte dell ‘utenza. Una delle
rivendicazioni espresse dal popolo della rete è stata, ad esempio,
quella per cui l’utente, oltre a rivendicare la propria autodeterminazione
come un diritto, se ne assumesse automaticamente anche la responsabilità.
Che dunque non vi fosse per il sysop che gestisce una Bbs oppure per
un provider internet la responsabilità dei materiali che gli utenti
inseriscono all’interno del suo sistema. Poiché la comunicazione è
un diritto, non vi deve essere nessun ostacolo per coloro che creano
un servizio che rende possibile il comunicare in rete, quale potrebbe
essere l’obbligo di un’autorizzazione istituzionale per le comunicazioni
telematiche. Se la scienza
della cibernetica è «lo studio teorico dei processi di controllo nei
sistemi elettronici, meccanici e biologici, specie del flusso delle
informazioni in tali sistemi», o lo «studio dei meccanismi umani di
controllo e della loro sostituzione con mezzi meccanici o elettronici»,
il cyberpunk è l’espressione dell’autocontrollo all’interno e nel
rispetto della molteplicità (Leary, 1994, p. 63). Vi è un principio
autopoietico (sul concetto di autopoiesi vedi Maturana, Varela, 1985)
e autodiretto di organizzazione. La pubblicità
dovrebbe essere la veicolazione dell’«opinione pubblica» (Habermas,
1986). Nel mondo della comunicazione veicolata dai mass media, l’informazione
diventa invece pubblicità del consenso, annullamento del dissenso.
La pubblicità, anziché essere l’espressione dei bisogni del pubblico,
diventa il luogo della formazione di questi bisogni. Una funzione
della democrazia è stata sussunta da una necessità del mercato. Le
reti telematiche alternative, una volta risolto il problema di fornire
a tutti gli strumenti necessari per il loro uso, consentono a chiunque
di esprimersi direttamente. In tal modo sovvertono il dominio sull’informazione
e partecipano alla creazione di un’economia che riflette i principi
della democrazia. Le comunità
virtuali sono una tecnologia democratica, o non sono. La definizione
e il significato stesso di comunità virtuale implica il rispetto dei
diritti democratici dei suoi appartenenti. Le mailing
list, ad esempio, sono nate come luogo di dibattito libero in cui
chiunque nel mondo possa discutere senza censure sulle tematiche più
varie. I Bbs trasformano un cittadino qualsiasi in editore. Nel caso
di televisione, giornali, riviste, film e radio sono pochissime le
persone capaci di determinare quali informazioni vanno messe a disposizione
del pubblico. In Usenet, ogni membro del pubblico è anche un potenziale
editore. Alla fine
degli anni Settanta, grazie all’uso della fotocopiatrice iniziano
a diffondersi le fanzine, elemento alla base dello sviluppo e della
diffusione delle idee del movimento punk. Il modello delle fanzine
rifletteva il sogno di una stampa underground (vedi Hoffman, 1987)
che cercava di dare a tutti la possibilità di farsi da soli il proprio
prodotto editoriale (Scelsi, 1994, p. 50). E mentre nascevano le fanzine
punk nascevano le fanzine telematiche, sotto forma di messaggerie,
di posta elettronica, Bbs, ecc. Mentre migliaia di graffitisti a New
York si scambiavano negli anni Settanta messaggi creativi attraverso
i treni della metropolitana, senza dover sottostare alle censure o
ai compromessi del mondo delle gallerie d’arte, altri, nello stesso
periodo, si scambiavano frasi, deliri ed emozioni attraverso i nascenti
mezzi telematici. Nel mondo
dell’arte, le Bbs o, in seguito, le mailing list e i siti internet,
hanno rappresentato la possibilità per chiunque di esprimersi creativamente
senza dover passare attraverso il filtro del sistema artistico ufficiale.
Ma i luoghi delle reti telematiche non sono semplicemente uno strumento
attraverso cui veicolare materiali «artistici». Le Bbs (e in seguito
un sito internet o una mailing list) si sono autodichiarate esse stesse
opere d’arte. È il luogo che è opera d’arte, non il suo contenuto.
Ovvero, opera d’arte è la possibilità per chiunque di partecipare
allo sviluppo di una comunità virtuale all’interno della quale si
confrontano e crescono le creatività di ogni membro. Un esempio in
tal senso è stata la già citata Bbs «Hacker Art», teorizzata nel 1989
ed esposta a giugno del 1991 alla Galleria d’Arte Moderna di Bologna
all’interno della mostra «Anni Novanta» a cura di R. Barilli. Questa
Bbs, che nel 1995 (quando ancora Internet stava appena decollando
in Italia) aveva raggiunto i cinquemila utenti registrati, è stata
per dieci anni un luogo dove chiunque poteva confrontarsi con la comunità
e autogestire spazi virtuali di libera espressione.
L’opinione
pubblica e il rifiuto della rappresentanza come delega della propria
identità Un filone
delle teorie sui media ha indagato criticamente il ruolo che i media
stessi svolgono all’interno di una società (Wolf, 1995). Partendo dal
principio che in una comunità vi deve essere la possibilità per chiunque
di partecipare o essere informato su ciò che riguarda la comunità
stessa, gli intellettuali da una parte, i movimenti dall’altra, si
sono posti il problema di andare a scoprire le carte in mano a chi
(i media) fornisce i canali del confronto pubblico o ne determina
le caratteristiche. Da cosa emerge
quella che viene definita l’opinione pubblica della comunità? Attualmente
staremmo assistendo a una trasformazione dello spazio dei mass media
in spazio pubblicitario (inteso come pubblicità di merci) 12.
Secondo queste analisi le tecnologie informative hanno trasformato
la realtà in una simulazione elettronica. Viviamo in
un’iperrealtà attentamente costruita per scimmiottare il mondo reale
e cavare soldi dalle tasche dei consumatori. La «pubblicità» in rete
potrebbe servire a dare prestigio pubblico a persone o cose, per renderle
passibili di consenso in un contesto di opinione «non pubblica». La
possibilità di costruire l’opinione pubblica e catturare l’attenzione
della maggioranza dei cittadini mediante spettacoli elettronici mina
le basi della democrazia. La partecipazione
in rete può contrastare la delega del proprio consenso a un meccanismo
perverso che rende l’opinione pubblica un’entità astratta artefatta
da un manipolo di fabbricatori del consenso e dell’immaginario.
Il rifiuto
della società dello spettacolo La simulazione
(perciò la distruzione) dell’autentico dibattito, prima negli Stati
Uniti e poi man mano nel resto del mondo, è ciò che Guy Debord chiamerebbe
il primo salto quantico nella «Società dello Spettacolo» e che Jean
Baudrillard riconoscerebbe come pietra miliare dello slittamento del
mondo nell’iperrealtà. La colonizzazione massmediatica della società
civile, con le immagini della televisione, si è trasformata in una
campagna quasi politica di autopromozione della tecnologia. («Il progresso
è il nostro prodotto più importante», disse nei primi anni dell’era
televisiva Ronald Reagan, portavoce della General Electric.) E nel
ventesimo secolo, man mano che telefono, radio e televisione sono
diventati veicoli del dibattito pubblico, la natura del dibattito
politico si è tramutata in qualcosa di ben diverso da ciò che prevedevano
gli autori della Costituzione. Ora i politici sono merci, i cittadini
consumatori e i problemi vengono decisi mediante fatti spettacolari.
Alle manifestazioni politiche, la telecamera è l’unico spettatore
che conta. La società dei consumi è diventata il modello del comportamento
individuale. Il dibattito è degenerato in pubblicità, e la pubblicità
usa il potere sempre maggiore dei mass media elettronici per alterare
le percezioni e modellare le idee. Quello che era stato un canale
di autentica comunicazione serve ora ad aggiornare il desiderio commerciale.
Quando le persone rimaste affascinate dalle bacheche elettroniche
diffondono la voce della democrazia «magica» di queste reti, corrono
il rischio di trasformarsi in agenti involontari della mercificazione.
I critici dell’idea della democrazia elettronica portano esempi di
una lunga tradizione di quella retorica utopistica che J. Carey ha
chiamato «retorica del sublime tecnologico»: «Nonostante nell’ultimo
secolo la tecnologia non sia riuscita a risolvere i più pressanti
problemi sociali, gli intellettuali contemporanei continuano a vedere
un potenziale rivoluzionario negli ultimi ritrovati tecnlogici che
vengono descritti come una forza estranea alla storia e alla politica
(...) Nel futurismo contemporaneo, sono le macchine a possedere intuito
teleologico. Nonostante le riunioni cittadine, il giornale, il telegrafo,
il radiotelegrafo e la televisione non siano riusciti a creare una
nuova Atene, i fautori della liberazione tecnologica descrivono regolarmente
un’era postmoderna di democrazia plebiscitaria istantanea per mezzo
di un sistema computerizzato di sondaggi ed elezioni elettroniche»
(Rheingold, 1994, pp. 319-325). Una volta
accettate le critiche di Carey si deve però anche essere in grado
di riconoscere l’importanza dei mutamenti messi in atto dalle reti
telematiche. Come dice F. Guattari «l’intelligenza e la sensibilità
sono oggetto di un’autentica mutazione, determinata dalle nuove macchine
informatiche (...). Assistiamo oggi a una mutazione della soggettività
ancora più importante di quella determinata dall’invenzione della
scrittura e della stampa» (M. D’Eramo, «La Società dell’Informazione,
un mito ricorrente», Le Monde Diplomatique, marzo, 2002)
Il rifiuto
dell’utente-merce Un altro aspetto
delle comunità virtuali è quello per cui quando le informazioni sono
digitalizzate, collegate e trasmesse in rete si può creare una priorità
del circuito di distribuzione dell’informazione rispetto sull’informazione
stessa. Il passaggio dalla società dello spettacolo a una società
delle telecomunicazioni, che fonda la sua economia sulla diffusione
interattiva della merce-informazione, ha tra le sue caratteristiche
il fatto che sia il prodotto che il messaggio non sono una specifica
esclusiva di chi ha la proprietà del mezzo, ma vengono forniti dall’utente
stesso. In questa società basata sulla simulazione di spazi virtuali
(dentro i quali si svolgono il lavoro e le transazioni quotidiane,
oltre che le attività ludiche e creative) la merce si trasforma sulla
base delle informazioni che vengono fornite dall’utente, delle tracce
lasciate dal suo passaggio e della sua presenza in tempo reale negli
spazi virtuali. Inoltre il valore stesso della merce aumenta proporzionalmente
al numero di utenti che vi si collegano, di modo che l’utente non
è più soltanto un soggetto che fa uso degli spazi virtuali, ma è contemporaneamente
un oggetto-merce nei confronti di ogni altro utente connesso in rete.
Questi elementi possono produrre delle libertà notevoli nel campo
della comunicazione sociale, così come possono, a seconda degli scopi,
trasformarsi in trappole per controllare e limitare le libertà individuali. Quando l’utente
diventa merce, il rischio è che la strategia del capitale si adoperi
per controllarne l’identità in modo che sia facilmente vendibile.
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